La Democrazia cristiana ha cessato di esistere da quasi trent’anni, lasciando una innumerevole quantità di eredi, alcuni dei quali continuano a litigare per il nome o per poco altro.

Molti vecchi democristiani mantengono tuttavia ruoli nelle amministrazioni locali, un democristiano guida ancora uno dei maggiori partiti, altri sono presenti nelle assemblee regionali, nel Parlamento nazionale, in quello europeo e perfino al vertice delle istituzioni.

Per un partito che non esiste più da tanto tempo, del quale si è voluta demonizzare la memoria, è un bel risultato, è la prova di una notevole capacità di selezionare classe dirigente, una parte della quale ha sfidato il tempo.

Le numerose presentazioni di un mio libro che racconta di quella forza politica nel contesto della storia isolana e nazionale, mi stanno portando in diversi posti della Sicilia, richiamando l’attenzione di molti di quegli eredi.

Ho ritrovato così antiche conoscenze e rivissuto la mia partecipazione alla storia della prima Repubblica.

La maggior parte di quelli che incontro, hanno lasciato l’impegno diretto nella vita pubblica, altri si sono ricollocati a destra, qualcuno, pochi per la verità, hanno scelto il Partito democratico.

Quasi tutti, anche stimolati dalla mia presenza e dal ricordo di battaglie comuni, ritrovano un forte orgoglio per la storia di quello che fu la casa comune e manifestano per essa un evidente rimpianto.

Del resto è normale rimemorare il tempo della giovinezza e quello nel quale si esercitavano ruoli in tutte le realtà locali, si partecipava alle competizioni elettorali, spesso si vincevano, si esercitava potere, si otteneva visibilità.

Si era parte anche di una comunità, ci si rapportava con i parlamentari che davano forza alle loro battaglie, li aiutavano a realizzare progetti di sviluppo delle realtà nelle quali operavano e da loro ottenevano vantaggi personali e clientelari.

Taluni di questi “eredi” di un lontano patrimonio di valori e di privilegi, insieme al disappunto e forse all’incomprensione delle modalità della fine di un partito, modalità che non sempre risultano a loro chiare e che vengono vissute come un torto della storia, come il compiersi di un nefasto disegno degli avversari, dei comunisti e dei magistrati o dei magistrati comunisti e come una prova di debolezza di coloro che erano alla testa del partito alla fine degli anni ‘80 e nei primi ‘90 e non seppero impedirne il collasso, taluni di loro sognano una rivincita.

Non riescono a nascondere il rimpianto, il permanente dolore per un mondo perduto e alcuni nutrono la speranza che quel mondo possa tornare.

Nei numerosi incontri che ho fatto, non sono pochi quelli che guardano con curiosità ed interesse alla nuova Democrazia cristiana, al partito di Totò Cuffaro, attratti dal nome, dall’emblema, convinti dalla capacità del suo promotore, dalla sua carica umana e magari spinti da un moto di solidarietà, forse improprio, per la vicenda giudiziaria che egli ha attraversato, improprio perché lo stesso Cuffaro non si è mai dichiarato vittima di una ingiustizia.

Forte ed ingenuo risulta il miraggio del ritorno, l’abbaglio di ritrovare, come d’incanto, il tempo nel quale noi democristiani davamo le carte, tenevamo banco, anche perché conoscevamo le regole del gioco, sapevamo utilizzare il potere, eravamo capaci di realizzare un disegno politico

Quel mestiere lo avevamo imparato in tanti anni di apprendistato e ci veniva da una storia, da una cultura, da un forte retroterra cattolico, da un assetto del Paese, dell’Europa e del mondo intero.

Quel mestiere lo avevamo appreso attraverso decenni di lotte, di sconfitte e di successi, che cominciarono dagli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia e che portarono, nel 1919, alla formazione del Partito popolare di Sturzo e, alla fine della seconda guerra mondiale, della Democrazia cristiana, che prese la guida del nostro e di altri Paesi del continente.

Tutto ciò non esiste più ed è oggetto di ricerca storica.

Un albero non può rispuntare senza un humus adeguato, senza un tempo lungo durante il quale le radici si formano e si diramano.

Lo sa quasi certamente anche Totò Cuffaro, che pure ha avuto la determinazione e la caparbietà di mettere mano ad una iniziativa, alla costruzione della Dc o di qualcosa che la richiama, e che tanti altri, in varie parti d’Italia, hanno tentato di fare senza risultati.

Totò ha utilizzato un brand che, pur bombardato da mille polemiche e da tantissime accuse, mantiene una buona attrattiva, ha messo in campo la sua notevole capacità di intrecciare relazioni umane.

Gli è giovata la scelta di non consentire il riciclaggio del vecchio personale, riuscendo così a costruire una forza che nelle elezioni regionali ha ottenuto un consenso vicino a quello della Lega, è presente con i suoi assessori nella giunta di governo e in diverse amministrazioni locali, a cominciare dal capoluogo.

È risorta la Dc?

No!

Oltre Lazzaro, nessuna resurrezione, né di esseri umani, né di vicende storiche, è nota.

Si tratta di un’altra cosa rispetto alla Dc, di una cosa che a quella si richiama e di quella ripropone alcuni dei tratti ormai lontani.

Se tornano nel lessico corrente parole antiche, non possono tornare culture ed esperienze nate e affermatesi in un mondo scomparso.

Non si possono far rivivere il potere, la diffusa presenza nella realtà sociale, la capacità di governare il Paese.

Si può e si deve invece tenere in vita il patrimonio immateriale, la storia di quella esperienza.

Si deve affermare una lettura più corretta e veritiera di quella proposta in questi decenni.

La Dc non torna nel ridotto siciliano, dove rischierebbe di apparire il frutto di un processo clientelare.

Non torna collocata a destra.

La dimensione isolana, una forza pure imprevista e tuttavia esigua, la vicinanza con questa destra conferiscono all’esperimento di Cuffaro un ruolo lontano da quello di un partito che per decenni esercitò una forte egemonia e che, disse De Gasperi, era una realtà di centro che guardava a sinistra.

Quel centro che manca all’assetto politico italiano e verso il quale tendono in molti, ancora con scarsi risultati, non può essere occupato in Sicilia dalla formazione di Cuffaro.

Essa può avere una funzione moderatrice nel rapporto con i suoi alleati.

I vecchi democristiani, coloro che tra il partito di Meloni e quello di Salvini scelgono di stare in essa, anche con il solo riproporre il riferimento alla dottrina sociale, al bene comune, al solidarismo, all’europeismo, portano parole d’ordine positive e concetti lontani da quelli in uso nella destra.

Se pure non potranno oscurare questi concetti, né impedire che ne restino la cifra, un riferimento anche flebile alla eredità morale e politica della Democrazia cristiana, potrebbe essere un utile controcanto.