Nel pantano della sanità siciliana, qualcosa si muove solo al Policlinico di Palermo: dopo l’inaugurazione del nuovo Pronto soccorso, infatti, il commissario straordinario Salvatore Iacolino ha svelato il grande piano per il futuro: scorporare l’ospedale universitario dal “Civico”. Questo sarà possibile tramite una rimodulazione delle risorse previste dall’ex articolo 20 della legge n.67/88, che prevede un programma straordinario di ristrutturazione edilizia e ammodernamento tecnologico del patrimonio sanitario pubblico. Iacolino, in pratica, spinge per la nascita di un nuovo ospedale da 465 posti letto e costi imponenti: si parla di 300 milioni per la realizzazione della struttura, e di un’ottantina per l’acquisto delle apparecchiature necessarie. Tempi previsti: 7-10 anni al massimo.

Bisognerà aspettare parecchio, e sperare che l’assessorato conceda di riprogrammare i fondi con una certa solerzia. Quella che l’assessore Volo e il presidente Schifani non hanno dimostrato in questa prima parte della legislatura. La sanità pubblica, da sola, basta a misurare il grado di delusione dei siciliani nei confronti della politica. E gli ultimi tre mesi confermano che non è cambiato nulla rispetto alla precedente governance. Senza voler esporre la Volo a un processo che (ancora) non merita – è in carica da troppo poco tempo e ha ereditato i fascicoli di Razza – appare chiaro come la figura ‘tecnica’ nominata da Schifani per non finire nelle grinfie i Miccichè e dei partiti, fin qui abbia collezionato una serie di magre figure. A partire dalla gestione dei rapporti coi privati convenzionati, passando per la proroga ai precari Covid, che a un paio di giorni di distanza dalla scadenza dei contratti, si ritrovano con le mani in mano: al “Cervello”, per citare l’esempio più clamoroso, hanno lasciato a piedi gli operatori socio-sanitari, nonostante le garanzie di una direttiva assessoriale.

Ci si muove a macchia di leopardo, perché le indicazioni arrivate da piazza Ziino lo permettono. Ma cambiando un attimo argomento, bastano i singoli episodi di malasanità a restituire il grado di fiducia dell’opinione pubblica. Alcuni giorni fa è stata ripresa da molti media la disavventura di un settantenne di Gaggi, paesino in provincia di Messina, che ha atteso quattro giorni per un ricovero. Dal “San Vincenzo” di Taormina, dov’era giunto con alcuni problemi respiratori, è stato rimbalzato a Catania, dove s’era liberato un posto nel reparto di Chirurgia Toracica: ma qui i medici non hanno appurato i requisiti per un ricovero, così, dopo un’estenuante attesa, l’uomo è stato rispedito indietro. Alla fine la famiglia l’ha riportato a casa. Questi episodi, nel silenzio assordante dei media, si consumano spesso anche nei Pronto soccorso, dove – a causa della carenza di medici – risulta impossibile garantire la prima assistenza nei tempi di Legge. Recarsi in ospedale, così, diventa un terno al lotto. E la politica, per questo genere di problemi, dimostra di non avere gli anticorpi.

Le promesse fatte in campagna elettorale sono già svanite. Schifani aveva annunciato “particolare attenzione sulle aree di emergenza territoriale, evitando al cittadino traumatizzato un’ulteriore sofferenza psicologica nascente da lunghe attese, a volte in situazioni logistiche che offendono la dignità umana”. Ma al netto dell’apertura del Pronto soccorso del Policlinico di Palermo e del Guzzardi di Vittoria, e al netto della paventata chiusura del reparto d’emergenza del “Cervello” (che sarà accorpato a quello di Villa Sofia per tutta la durata dei lavori), la prospettiva non appare molto rosea. Non è solo una questione strutturale – molti interventi finanziati col Pnrr avrebbero dovuto garantire la creazione di nuovi reparti d’emergenza – ma anche di personale: i concorsi per assumere nuovi medici vanno deserti, specie negli ospedali di periferia. Perché? A questa domanda dovrebbe rispondere la politica. Evitando, magari, di dare la colpa al “numero chiuso” nelle facoltà di Medicina.

In questi primi mesi del tandem Schifani-Volo non ha funzionato quasi nulla. Il presidente della Regione aveva invocato una piena sinergia tra pubblico e privato: “La nuova sanità – disse durante l’esordio a Sala d’Ercole – dovrà guardare senza riserve al privato convenzionato, sia ospedaliero che diagnostico, nella consapevolezza che l’assistenza sanitaria costituisce una pubblica funzione al di là del soggetto che la eroga”. Il risultato è che pochi giorni fa, a margine dello sciopero di ambulatori e laboratori analisi, che ha costretto la regione a incrementare i servizi delle strutture pubbliche, il governatore ha cambiato prospettiva: “Non ci faremo certamente intimidire dalle proteste in piazza – ha avvertito, sfidando i manifestanti – Io sono comunque perché si rafforzi l’assistenza pubblica anche nel mondo delle analisi. Sono un liberale e credo nel privato, ma non posiamo assistere a un 70% di attività che viene svolta dal privato”.

Tra i numerosi stop&go va registrato quello della Volo sugli amministrativi Covid. Esautorati da qualsiasi ruolo in mattinata, e riammessi nel pomeriggio del 28 febbraio, quando, con una direttiva indirizzata alle ASP, l’assessore ha chiesto “una celere ricognizione finalizzata a individuare i profili esistenti nelle rispettive dotazioni organiche, ancora non ricoperti, e a verificare quanto personale, reclutato durante l’emergenza Covid, sia in possesso dei requisiti di legge” per accedere al percorso di stabilizzazione previsto dal decreto Milleproroghe. Stabilendo, con ciò, il loro “mantenimento in servizio” (nel rispetto delle dotazioni organiche). Poche ore prima, testualmente, lo stesso assessore diceva il contrario: “Alla luce della nuova valutazione dell’emergenza e della normativa nazionale, non essendoci più esigenze particolari di gestione, risulta impossibile, tanto per l’esecutivo che per il parlamento regionali, nell’immediatezza, intervenire con nuove proroghe”.

Qual è la vera Volo? Quella che annuncia un taglio o quella che se lo rimangia? Quella che partecipa alle inaugurazioni con Schifani o quella che rifiuta di rispondere alle opposizioni all’Ars? Quella che silura il dirigente di punta dell’assessorato perché ha trascorso troppi anni nello stesso dipartimento, o quella che rifugge dal fornire spiegazioni su un buco da 400 milioni paventato dal dirigente medesimo in una relazione dettagliata? Fare il direttore sanitario a Messina o a Caltanissetta, con tutto il rispetto del caso, non è come diventare assessore alla Sanità. Ma il peso del ruolo assegnatole, più che sulla Volo, rischia di gravare su Renato Schifani. Che in prima battuta l’ha difesa dal duro attacco dei privati convenzionati che ne invocavano le dimissioni; ma che, di fronte alla polemica dei partiti (anche di maggioranza), non ha pronunciato una parola in suo favore.

Da Fratelli d’Italia, dopo l’affondo della delegazione siciliana di Camera e Senato, è arrivata un’altra nota polemica da parte del deputato regionale Marco Intravaia: “La direttiva dell’assessore Giovanna Volo – ha lamentato il pupillo ed ex segretario particolare di Musumeci – è arrivata in ritardo mentre il Parlamento era impegnato in una difficile discussione per dirimere la complessa questione”. La scadenza del 28 febbraio “era nota a tutti e un provvedimento assessoriale redatto con anticipo avrebbe consentito una maggiore coerenza applicativa – spiega Intravaia -. Così, invece, non si traduce in un equo trattamento per i lavoratori interessati, i cui contratti saranno prorogati a macchia di leopardo a seconda della provincia e dell’azienda sanitaria di pertinenza”.

E’ esattamente quello che sta accadendo. Gli amministrativi restano solo se le Asp che decidono di prorogarli non sforano il tetto di spesa e il piano del fabbisogno triennale (altrimenti dritti a casa); i 56 operatori socio-sanitari del “Cervello” vengono tagliati fuori, nonostante le rassicurazioni della direttiva assessoriale; i tecnici e gli informatici, costretti a un turno di stop, finiranno a rimpolpare – chissà come e quando – case e ospedali di comunità. Insomma, regna la confusione. Ma è così per tutto, non solo per i precari.