Nel dossier dell’anti-corruzione reso noto mercoledì dall’Anac, l’autorità diretta fino da Raffaele Cantone (ieri era il suo ultimo giorno, ha deciso di tornare a fare il giudice), lo scandalo dell’Anas di Catania, che ha preso forma a metà settembre e si è consolidato ieri, con l’arresto di otto tra funzionari e imprenditori, è segnato con un circoletto rosso tra i 28 casi di corruzione segnalati in Sicilia nell’ultimo triennio (quasi il 20% del totale, uno in meno rispetto a tutte le regioni del Nord messe insieme).

L’Isola, ancora una volta, è “maglia nera” nelle classifiche del malaffare. L’attività dei funzionari dell’Anas, con la compiacenza di dirigenti e imprenditori, rientra nel 74% dei casi in cui l’attività corruttiva ha riguardato l’assegnazione di appalti pubblici e nel 48% delle situazioni in cui l’illecito – a differenza di altre mode dilaganti – si è materializzato grazie all’arte antica della “mazzetta”. Ossia una dazione in danaro per ricevere qualcosa in cambio. A Catania, dove tutti gli arrestati risultano anche indagati per concorso in corruzione, vigeva un sistema scientifico (o “rodati circuiti corruttivi” come si legge nelle carte dell’inchiesta): rispetto ai costi dell’aggiudicazione degli appalti, versati dalle pubbliche amministrazioni, i funzionari riuscivano a mettere da parte un buon 20%, allo scopo di spartirselo, “individuando – come spiegano i magistrati – le lavorazioni da non effettuare o da realizzare soltanto in parte”.

I cosiddetti “lavori in economia”, con la connivenza degli addetti al controllo, prevedevano un margine di manovra su determinate mansioni: ad esempio, la mancata rimozione di parte del manto stradale usurato, oppure il risparmio delle spese di trasporto del materiale in discarica. Questo giochino, ben assimilato da tutti gli attori in campo, è costato 93 mila euro in tangenti. “Il profitto conseguito era pari a circa il 20% dei lavori appaltati – attacca la procura di Catania – e veniva assegnato per un terzo ai dipendenti Anas corrotti e, per la parte restante, restava nelle casse dei corruttori”.  “I pubblici ufficiali coinvolti – si legge ancora – piegavano i loro poteri discrezionali di vigilanza e controllo orientandoli al perseguimento di scopi criminali, in totale dispregio dei rilevanti interessi pubblici in gioco”. Ma l’interesse pubblico, di fronte a impiegati senza scrupoli, perde totalmente senso. E l’inchiesta sulle “buche d’oro”, com’è stata ribattezzata quella dell’Anas etnea, spiega molto del disastro della viabilità siciliana, che si scontra ormai da decenni con cantieri fermi, crisi aziendali, burocrazia lumaca. Metteteci pure le tangenti e la frittata è completa.

Il sistema corruttivo negli ultimi tempi ha mostrato il suo volto peggiore. Prima del dossier dell’Anac, ci aveva pensato un’indagine di Unioncamere ad alimentare i brividi lungo la schiena, per aver appurato che è di 100 miliardi di euro in dieci anni il prezzo pagato dall’Italia al cancro della corruzione. In Sicilia, poi, il fenomeno ha coinvolto i casi di maggiore interesse: da quello riguardante Antonello Montante, l’ex leader di Confindustria e paladino dell’antimafia, che non a caso è reduce da una condanna in primo grado a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione; passando per l’Università bandita di Catania e i suoi concorsi truccati, o il processo a Silvana Saguto e la gestione illecita dei beni confiscati alla mafia. Per non dimenticare gli ultimi casi, balzati agli onori delle cronache nazionali: il tentativo di un faccendiere, tale Paolo Arata, di introdursi alla Regione siciliana sponsorizzare i mini impianti eolici dell’amico Vito Nicastri, condannato di recente a 9 anni per concorso esterno, corrompendo i funzionari; e il “sistema Siracusa”, un meccanismo perverso, secondo la Procura, messo in piedi dagli avvocati Paolo Amara e Giuseppe Calafiore, con la complicità del giudice Longo, per pilotare le sentenze al Consiglio di Stato.

Proprio nell’ambito del “sistema Siracusa”, per concorso in corruzione, è finito tra gli indagati una nostra vecchia conoscenza: l’imprenditore di Pinerolo Ezio Bigotti (ora ai domiciliari). Che ci riporta con la mente a un altro scandalo di cui la politica ha cominciato a occuparsi solo di recente grazie all’impegno dell’Antimafia di Claudio Fava, e per l’insistenza del Movimento 5 Stelle, ma che le varie procure dell’Isola hanno lasciato colpevolmente correre.  Il riferimento è al censimento fantasma realizzato per conto della Regione dalla vecchia e defunta Sicilia Patrimonio Immobiliare S.p.A., una società mista pubblico-privata, legata a Bigotti e alle sue compagnie con sede in Lussemburgo. “So che è stato raggiunto da vari provvedimenti da parte di autorità giudiziarie italiane – ha detto, riferendosi all’avventuriero, Antonio Fiumefreddo, noto avvocato catanese ed ex presidente del comitato di sorveglianza della Spi –. Mi sorprende, però, che in Sicilia continui a non succedere nulla. Questo è uno scandalo di proporzioni enormi. Qualcuno ha svenduto la Fontana di Trevi come ha fatto Totò”.

Un compenso scandaloso – la spesa prevista era di 13 milioni ma è lievitata fino a 110, tra fatture e arbitrati – per un caso scandaloso, su cui nessuno ha messo il becco. Una rapina in piena regola, ma senza responsabili. Anche se il destino di buona parte di quei proventi non è difficile da immaginare: potrebbero aver alimentato una fabbrica di tangenti e numerosi beneficiari, sparsi in giro per lo stivale.

Peccato che questo scandalo non sia annoverato (non ancora) fra quelli segnalati da Cantone e Anac all’interno di un dossier ben dettagliato: “La corruzione – si legge – benché all’apparenza scomparsa dal dibattito pubblico, rappresenta un fenomeno radicato e persistente, verso il quale tenere costantemente alta l’attenzione”. Anche se sono cambiati i modi in cui si manifesta all’interno di una società molto permeabile: “Il denaro continua a rappresentare il principale strumento dell’accordo illecito tanto da ricorrere nel 48% delle vicende esaminate”, anche se il suo utilizzo è diminuito alla luce della “difficoltà di occultamento delle somme illecitamente percepite”. Così “si manifestano nuove e più pragmatiche forme di corruzione”. La più frequente – e anche in questo caso la Sicilia rappresenta un terreno fertile e triste – è l’assegnazione di un posto di lavoro a un parente o un sodale, o in alternativa di prestazioni professionali (11%), specialmente sotto forma di consulenze e di regalie. Ma anche benefit più insoliti come benzina, pasti e soggiorni in hotel. Qualcuno manda persino le escort a casa. Per corrompere basta poco. Va bene anche una notte di bagordi.