Il futuro del governo Schifani – ancora in embrione – rischia di essere minato dalle liti interne a Forza Italia, che scandiscono l’avvicinamento all’elezione del presidente dell’Ars, in programma giovedì prossimo. A togliere qualche castagna dal fuoco, non tutte, ci ha pensato ieri Gianfranco Micciché, annunciando la propria rinuncia al bis: “Vorrei rassicurare il Presidente della Regione: non sono necessarie dimissioni perché io non sarò candidato”. Il primo ostacolo è stato rimosso. Ma è proprio quest’asse fra Schifani e Micciché che non funziona. Ed è attorno a questi due poli che i tredici parlamentari di FI stanno cercando una collocazione.

L’imprinting, però, è aspettare. Nessuno si sogna di dare addosso – apertamente – a un presidente della Regione appena eletto, che già paga le simpatie “patriote”. A Miccichè non sono mai andati giù gli elogi di Schifani, in campagna elettorale, per il lavoro di Razza e Musumeci, specie sulla gestione della sanità (galeotto fu il convegno al Catania City Airport Hotel). Tanto meno la “clausola di salvaguardia”, paventata a mezzo stampa, per consentire al delfino dell’ex governatore di rientrare dalla finestra, nonostante la regola della giunta di “soli eletti”. Diffidenza e reciproci sospetti hanno portato così Schifani a ipotizzare il golpe di Micciché sulla presidenza di Sala d’Ercole (grazie alla sponda di De Luca, Pd e 5 Stelle): “Se accade mi dimetto”, è stata la controffensiva. Mai smentita.

In questo clima, ben tredici deputati devono scegliere da che parte stare. Al vertice convocato da Micciché a palazzo dei Normanni, ieri, si sono presentati in quattro, di cui tre fedelissimi (Calderone, Mancuso e D’Agostino) e una ‘colomba’, Margherita La Rocca Ruvolo. Che peraltro ha rifiutato la nomination alla Sanità, dovendo occuparsi del suo comune – Montevago – dove è stata rieletta sindaco un anno fa. E gli altri? Aspettano. Vogliono capire da che parte tira il vento, se è possibile conquistare uno strapuntino (che non sia per forza un assessorato: andrebbe bene anche un posto nel Consiglio di presidenza o a capo di una commissione), e alla fine schierarsi. In attesa di superare lo stallo, però, hanno preferito disertare. Un messaggio inequivocabile (di apertura a Schifani).

Non sorprende l’assenza di Marco Falcone, assessore all’Economia in pectore: già durante la scorsa legislatura, con l’ex collega Gaetano Armao, si era iscritto al partito dei musumeciani, e fino alla fine aveva sostenuto l’ipotesi di un bis. Inoltre aveva chiesto a più riprese di scalzare Micciché dalla guida di Forza Italia. Il deputato etneo almeno è coerente. Ma gli altri? Edy Tamajo ha ostentato per tutta la campagna elettorale un fortissimo legame col vicerè berlusconiano, poi ha preso 21 mila voti e, adesso, pretende una ricompensa: un posto di primo piano nell’esecutivo o, se proprio le cose dovessero andar male, la vicepresidenza dell’Ars. Persino Luisa Lantieri, un nome spendibile per la giunta perché donna (ne servono quattro), ha preferito sottrarsi al confronto col leader: l’ex assessore del governo Crocetta, buona amica di Totò Cuffaro, è approdata in Forza Italia nel corso dell’ultima legislatura, dopo essere passata dal Pd e dal gruppo di Ora Sicilia, nata come stampella di Diventerà Bellissima, poi deflagrata.

Tutti ambiscono a un ruolo di rilievo: anche la new entry Riccardo Gennuso, eletto nel Siracusano; per non parlare di Riccardo Gallo, l’uomo più vicino a Marcello Dell’Utri; o Stefano Pellegrino, che già nel corso dell’ultima legislatura aveva palesato una certa insofferenza nei confronti del coordinatore regionale azzurro. Schierandosi coi ‘ribelli’ Falcone e Armao in più di un’occasione. Mentre l’ultima a voltare le spalle a Micciché, secondo il Giornale di Sicilia, è l’ex assessore agli Enti locali, Bernadette Grasso, che avrebbe dovuto subentrare a Calderone, eletto anche alla Camera. Il quale, invece, ricoprirà i due incarichi finché la legge gli verrà incontro. L’ultimo sottogruppo interno a FI – trasversale – è quello che ha riallacciato i contatti con Totò Cardinale, l’ex ministro delle comunicazioni: oltre agli ex Sicilia Futura, Tamajo e (forse) D’Agostino, comprende Gaspare Vitrano, tornato in Assemblea dopo mille peripezie giudiziarie. Cardinale non ha preclusioni nei confronti di Schifani: anzi, in campagna elettorale, lo ha accolto festante a Mussomeli, e ha un filo diretto col neo governatore.

Non sarà facile riemergere da questa confusione. E quest’attesa snervante per la formazione del governo non aiuta a fare chiarezza. A capire chi è di Forza Italia, e chi no. A capire chi è sempre stato un esponente di partito, e chi invece l’ha utilizzato come un autobus per raggiungere i propri traguardi personali. Prendete Schifani: a parte la sbandata per il progetto senza quid di Angelino Alfano, ha sempre osannato Silvio Berlusconi. Anche se a sceglierlo per la corsa di palazzo d’Orleans non è stato il Cav., bensì Ignazio La Russa. Il neo presidente del Senato che oggi vorrebbe fare man bassa di poltrone: dopo aver ottenuto per sé quella più alta di palazzo Madama, spinge perché Gaetano Galvagno, il pupillo di Paternò, ottenga quella di Sala d’Ercole. Mentre, in nome e per conto di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia otterrà anche quattro assessorati. La vera fortuna, per i patrioti, è stata rinunciare a Musumeci; e aver puntato tutte le fiches su Schifani.

Il gioco è venuto allo scoperto e in Forza Italia l’hanno capito: alcuni salteranno sul treno in corsa, ed esaudiranno i propri desideri; altri fonderanno il partito dei delusi, minacciando la crisi a ogni piè sospinto. E’ la storia di un centrodestra incapace di fare sintesi. Di un centrodestra che non esiste più da tempo.