In quel vicolo proprio di fronte alla Cattedrale, si respira il sacro e il profano. Dalla Casa del Sacerdote esce un alto prelato proprio mentre chiacchieriamo con Nicola Argento (“Ma io mi chiamo Nicolò”, precisa), erede insieme ai suoi fratelli di una delle più note famiglie di pupari palermitani, davanti al suo teatro che ha sede nelle vecchie scuderie di Palazzo Asmundo, in via Pietro Novelli. Sacro e profano, come “R Patrona”, lo spettacolo dedicato alla Santuzza in cui la prosa e la musica si mescolano con l’arte dell’opera dei pupi. Portato in scena a luglio, nel cortile Maqueda di Palazzo dei Normanni, replicherà il 4 settembre in piazza del Parlamento, data in cui si celebra la morte della santa. Rosalia che, idealmente, torna in quel palazzo dove visse, teatro degli avvenimenti di corte.

Lo spettacolo, voluto dalla Fondazione Federico II, parte dal canovaccio del Trionfo di Salvo Licata (rimaneggiato poi dall’attore Luigi Maria Burruano, regia di Clara Congera), si affida al cunto di Salvo Piparo e al canto di Costanza Licata. Attori, ballerine, musicisti ma anche il fuoco e gli acrobati si mescolano con l’opera dei pupi dei maestri Argento. Sono loro a introdurre la figura di Rosalia. “Un’esperienza bellissima – dice Nicola – , quello di Santa Rosalia è un culto sentito, a Palazzo dei Normanni e con i pupi diventa una rappresentazione ancora più emozionante”. Quello degli Argento è un teatro dei pupi che ha già raccontato Rosalia. E non solo. “I pupi possono raccontare qualsiasi storia, possono sposare ogni storia. Ed è necessario farlo, è giusto innovare e catturare altre realtà, se ti fermi alla tradizione sei destinato a morire. Lo abbiamo fatto ad esempio con la danza, nello spettacolo sul piano della Cattedrale”.

Innovazione che passa da un nuovo linguaggio, da un nuovo approccio nella recitazione, da un nuovo modo di interagire con il pubblico. Innovazione che passa anche dalle nuove frontiere dell’integrazione. “Abbiamo abolito molte espressioni offensive verso i musulmani”, spiega. Così dallo spettacolo, per rispetto ai tanti stranieri, sono sparite esclamazioni antiche e tradizionali dell’opera dei pupi come “sangue di Maometto!!!”.

I pupari del Ventunesimo secolo stanno al passo coi tempi insomma. In via Pietro Novelli Nicola, Dario e Anna hanno raccolto il testimone dal padre Vincenzo. Prima altre due generazioni, Giuseppe e don Cecè, capostipite da cui tutto ebbe inizio nel 1893. Lui, che andava a scuola dal maestro Pernice, dando vita a uno stile unico, diventato ora lo stile Argento. Oggi in scena c’è anche Cristian Bruno, figlio di Anna, mentre Sergio, il più piccolo dei tre figli di Nicola pensa di tornare a Palermo per respirare l’aria del palco e dei paladini. “Per me è stata una scelta quasi naturale – dice Nicola – sono cresciuto così. Per un po’ avevo un altro lavoro, poi ho scelto”. Nicola pensa anche a una scuola per pupari, guarda con ottimismo alle nuove generazioni. “Ho tenuto qualche corso – aggiunge – ma una scuola è complicata, ci vorrebbe il sostegno delle istituzioni”. Il Teatro, la bottega, un negozio in corso Vittorio Emanuele, perché gli Argento i pupi li realizzano anche e li vendono. I loro pupi hanno un filo in meno nella gamba sinistra, sono costruiti diversamente, le tecniche dietro il palco e le battaglie davanti al pubblico sono diverse.

Stiamo per salutarci, lo spettacolo inizierà fra poco. Entrano due anziani signori. Lui è Vincenzo, padre di Nicola, 80 anni e ancora in campo. Costruisce i suoi pupi e “battaglia” energico. “Un pupo? Ci metto un mese a farlo, meno se è uno più commerciale. Quello del puparo è un mestiere che ne contiene almeno altri dieci: devi sagomare, intagliare, sbalzare…”. Sarà l’età, sarà che nella vita ne ha viste tante: il padre prigioniero di guerra lo ha conosciuto quando aveva sette anni “e ho visto la fame”, a dieci anni fu mandato a fare l’apprendista da un calzolaio di via Mazzini. Sarà per tutto questo o per i tempi che cambiano, ma il Maestro Argento è scettico sul tramandare l’arte. “Non sono geloso, come pensa mio figlio. A loro ho insegnato tutto. Ma i giovani non hanno più voglia di imparare, vanno a scuola, pensano al motorino e alle ragazze. Per imparare veramente ci vogliono quattro anni, chi resta a bottega così a lungo? E poi le leggi, è tutto più complicato, tenere un giovane costa, come si fa?”. Sua moglie Teresa ha 77 anni, mentre parla lo guarda con affetto. È lei che ancora oggi cuce i costumi dei pupi. Alle cinque e venti è pronta per staccare i biglietti. I turisti, lo zoccolo duro del pubblico, arrivano uno dietro l’altro. Alle 17,30 lo spettacolo va in scena, come ogni giorno. Il sipario si alza sulle battaglie dei paladini.