Il weekend di passione della politica italiana ha non pochi protagonisti siciliani. Uno è un papabile ministro della Giustizia. Si chiama Pietro Grasso, ex presidente del Senato e a lungo procuratore nazionale Antimafia. Ma ce ne sono altri che in queste ore cercano di dare una direzione alla crisi: per quel che può, il senatore Davide Faraone, fresco di commissariamento in Sicilia per aver cercato di impedire – parole sue – l’inciucio fra Pd e Cinque Stelle. Lo stesso che i “renziani” adesso reclamano per far fuori Salvini dalla scena politica. E poi il solito Nello Musumeci: tifosissimo della Lega che implora gli amici del Carroccio a non tornare nel governo coi Cinque Stelle. Posizione silenziosa quella di Gianfranco Miccichè fino a ieri, quando il commissario regionale di Forza Italia ha riaperto il fuoco nei confronti di Salvini e del suo opportunismo. Mentre all’interno del Movimento 5 Stelle, a fare il tifo per un accordo con il Pd, è rimasto, fra gli altri, il palermitano Giorgio Trizzino, deputato alla Camera, che fin dall’inizio ha perorato la causa di un governo progressista.

Alcuni siciliani sono sulla cresta dell’onda. Altri assistono, con attenzione e un filo di preoccupazione, all’ennesimo esperimento di laboratorio che rischia di ridurre a un accordicchio il governo della Nazione. Manca una convergenza sui temi – ai 10 punti di Di Maio, si oppongono i 5 di Zingaretti, resta il rebus sul taglio dei parlamentari – ma soprattutto sul candidato premier: si fanno i nomi del solito Giuseppe Conte, che non sta bene a Zingaretti ma sì ai renziani; di Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nel governo Letta, paladino dello sviluppo sostenibile ed ex presidente dell’Istat; c’è la costituzionalista Marta Cartabia, che sarebbe la prima donna presidente del Consiglio. Ma, qualora dovesse nascere un esecutivo giallorosso, il primo siciliano a tornare in voga per la compagine di governo sarebbe Pietro Grasso.

Le doti di magistrato equilibrato non di discutono, ma in politica, dopo l’esperienza da presidente del Senato (2013-18), non ha fatto ‘sti gran figuroni. L’addio al Pd, macchiato da un decreto d’ingiunzione di 83mila euro per non aver versato al Nazareno il corrispettivo di 1.500 euro al mese (chiesto a tutti i parlamentari della scorsa legislatura), è stato seguito dall’approdo in Liberi e Uguali, una “sua creatura”. Che alle ultime Politiche ha fatto un buco nell’acqua. La candidatura in pompa magna nel collegio di Palermo si è rivelata un flop: Grasso è arrivato quarto dietro i candidati grillini, di centrodestra e del Pd ed è stato ripescato in Senato solo grazie a “santo proporzionale”.

In generale LeU è una barca già affondata, sebbene alla Camera sia comunque riuscita a costruire un gruppo indipendente (a differenza di Palazzo Madama, dove l’ex procuratore alloggia nel “Misto” con la Bonino). Ma Grasso non ha mai mollato la preda e qualche settimana fa, nel suo intervento contro il decreto sicurezza-bis, ha invocato l’aula sorda e grigia, e il discorso del bivacco pronunciato da Benito Mussolini nel 1922. Ha lasciato un segno, sebbene non sia bastato a stoppare un provvedimento che l’eventuale governo giallorosso potrebbe cassare. Negli ultimi giorni Grasso incita Zingaretti e Di Maio a trovare un accordo: “Caro Nicola, caro Luigi: è necessario un Governo che archivi per sempre la stagione della rabbia, delle bestie sui social, dell’odio, dello spregio alle Istituzioni della Repubblica – ha scritto su Facebook l’ex presidente del Senato -. Costruiamolo su una agenda che abbia come faro il lavoro; che restituisca dignità alle persone; che difenda e investa su scuola, sanità, ricerca, innovazione; che promuova la giustizia sociale; che lotti contro l’emergenza climatica. Usiamo i prossimi 3 anni per realizzare davvero il progetto di un’Italia diversa. I numeri ci sono, basta volerlo e non cadere nei tranelli dei veti incrociati. Non consegniamo il Paese all’incertezza o – peggio ancora – alla destra di Salvini. Sarebbe l’errore più grande”.

Anche Grasso sposa l’idea di un governo di legislatura. Come gli ex compagni del Partito Democratico che in queste ore, cercando di sfuggire alle contraddizioni, cercano la quadra su un patto di governo. Tra i sostenitori di un accordo coi Cinque Stelle c’è Davide Faraone, che proprio a causa dei Cinque Stelle ci lasciò la pelle da segretario regionale di partito. Non più tardi di qualche settimana fa. Venne commissariato dal Nazareno, dalla commissione nazionale di garanzia, e decise di restituire la tessera: “Stanno epurando uno a uno i renziani del Pd per dimostrare ai 5S che ci sono le condizioni per un accordo – aveva detto durante lo sfogo in conferenza stampa, all’indomani della decisione di mettere a capo del partito in Sicilia Alberto Losacco, dell’area di Franceschini -. La Sicilia diventa laboratorio politico di un esperimento del genere. Mi batterò contro questa prospettiva”.

Ma poi la prospettiva è cambiata e l’accordo coi Cinque Stelle è diventato l’unico espediente per mandare in fuorigioco Salvini e la sua politica brutale sulla pelle dei migranti. Faraone in questi mesi è anche salito sulla Sea Watch, ha esposto cartelli in Parlamento (“La disumanità è legge”), e ha usato parole durissime contro il Ministro dell’Interno. Per lui è arrivato il momento di allearsi coi “meno peggio” pur di “ridare “umanità” all’Italia, riformare le istituzioni, tagliare le tasse e creare nuovo lavoro, soprattutto per i giovani. Queste sono le uniche valutazioni da fare”. Al diavolo il passato.

All’interno del Movimento 5 Stelle, poi, si alternano le posizioni più disparate. Da quella diffidente di Giancarlo Cancelleri, che ha comunicato agli iscritti che saranno loro a decidere su Rousseau circa una futura alleanza col Pd, a quella di Giorgio Trizzino, in verità fra le più coerenti. Sin dall’inizio. Il deputato palermitano non ha mai avuto un occhio di riguardo per Salvini, è sempre rifuggito dall’accettare la Lega come naturale partner di governo e, alle prime avvisaglie di crisi, ha aperto ai “dem”. Almeno sui temi. E lo ha confermato qualche giorno fa in una intervista, parlando dei cinque punti di Zingaretti su cui intavolare una trattativa: “Sono temi che fanno parte del dna del M5s. Europa, ambiente, sviluppo, tutela dei diritti dei più fragili. Sono una base molto ampia per poter costruire un dialogo, ho abbastanza apprezzato”. Ha apprezzato, come la maggior parte del Movimento 5 Stelle. Che fino a qualche giorno fa – dal mazarese Bonafede, ministro della Giustizia, alla catanese Giulia Grillo (Salute) – hanno etichettato Matteo Salvini come “traditore del popolo”. In pochi, come nel caso del senatore Mario Giarrusso, vorrebbero invece riaprire il forno con la Lega, e dare continuità a un’azione di governo che dopo 14 mesi si è rivelata non all’altezza.

Pur non essendo attori protagonisti di questa crisi, anche Nello Musumeci e Gianfranco Micciché qualcosa hanno lasciato filtrare. Il presidente della Regione venerdì – a braccetto con l’amico e futuro alleato Giovanni Toti, governatore della Liguria – ha parlato di autonomie al meeting di Comunione e Liberazione, a Rimini. E il discorso è scivolato in politica: “Io sono favorevole all’autonomia, ma alla Lega auguro di non tornare più al governo col Movimento 5 Stelle” ha dichiarato il presidente della Regione e leader di Diventerà Bellissima. Che sposa la teoria dei ministri del ‘no’ e, per l’ennesima volta, ha puntato il dito contro Danilo Toninelli, il nemico giurato delle infrastrutture: “E’ lui la sciagura di questo Paese”. Sin dagli albori della crisi Musumeci ha chiesto di tornare subito a votare.

Mentre Gianfranco Micciché, che in questi giorni lavora alle carte per ripresentarsi in aula il 10 settembre e discutere di “collegato”, ha lasciato un’impronta proprio ieri, quando rispondendo alle domande di Adnkronos è tornato all’assalto di Matteo Salvini, reo di cercare un nuovo accordo coi 5 Stelle: “Salvini è un traditore, è il primo a non volere il voto – ha osservato il presidente dell’Ars – Sta prendendo per il c… il mondo intero. Altrimenti non darebbe la sua disponibilità a tornare al governo con i grillini. Come succede a tutti i traditori si ritrova adesso in mezzo a una strada. Quando al Quirinale è uscito dall’incontro con Mattarella, perché non ha dichiarato di volere provare a fare un governo con il centrodestra?”. Ossia, la proposta del Cav. e di Forza Italia. Il rapporto, con vista su eventuali elezioni, sembrava quasi ricucito. Ma adesso scricchiola: “Tutte le volte che Berlusconi è arrivato primo – ha fatto notare inoltre Miccichè – non gli è passato per la testa abbandonare un pezzo della coalizione. Lo avrebbe potuto fare certamente, ma da leader è stato responsabile. Salvini, invece, appena diventato leader della coalizione, ha buttato a mare l’alleanza e ha fatto l’accordo con i 5 Stelle. Poi, sulla base di quel tradimento, ha cominciato ad avere un consenso enorme”. Un “traditore del popolo”. Adesso sono in due a tacciare il “capitano” con lo stesso epiteto: i Cinque Stelle e Micciché. Per una volta dalla stessa parte della barricata.