Io volevo essere amato dagli agrigentini, per quello che ero. Dico “ero” perché sono cinque anni che ho chiuso con le turiste. Sono stato in servizio trentatré anni, dai quattordici ai quarantasette, ma da quando è morta mia madre ho chiuso.

Mi chiamo Orlando Randisi, sebbene la mitologia di questa città prescinda dal mio cognome. Sono Orlando, tutto qui. Sì, volevo essere amato, ma l’umanità mi ha deluso, il genere umano nel suo complesso. Particolarmente gli agrigentini. La cattiveria di questa città continua a colpirmi, ancora adesso che ho chiuso con le straniere e faccio un mestiere umile, umiliante, adesso che per vivere compilo le schedine, le chiudo in busta e le vendo alla gente: la busta della fortuna. E’ una mia idea. Ogni mattina sono in giro: Agrigento, Porto Empedocle, Siculiana, e più lontano: Modica, la provincia di Trapani, di Palermo. Devo spostarmi continuamente, ogni giorno un paese diverso, un’altra città, ché altrimenti la gente si stanca e non compra più le mie buste. Ogni sera devo rientrare, per via dei gatti di cui mi occupo: sono tanti, li sfamo, li curo; alcuni vivono con me, altri li visito dove vivono. Cinquantamila lire al giorno: la loro sopravvivenza biologica, e la mia, è un problema meteorologico, ché se piove non vendo nulla. E’ molto penoso. Ma che posso fare? Viva mia madre, c’era la sua pensione; oggi sono ridotto a questo: la busta della fortuna. Per la verità io sono elettricista: elettrotecnico diplomato; ma non saprei badare alle carte, alle fatture. Non fa per me. Io per lo Stato non esisto, non sono iscritto da nessuna parte: un fantasma; niente io per lo Stato, niente lo Stato per me.

Lo so di camminare sul filo, ma ognuno è come è. Mio padre era usciere capo in prefettura, decoroso, dritto. Andavamo d’accordo. Lui era di Siracusa, poi ha fatto servizio a Messina, dove io sono nato. Ad Agrigento siamo venuti che io avevo sette anni. Qui sono cresciuto, ma restando sostanzialmente un estraneo, un intruso. Avrei voluto che questa città mi amasse, per quello che ero, per quello che facevo e per il modo in cui lo facevo. Sì, parlo del mio lavoro con le turiste. Ma questa città mi ha voluto distruggere, col disprezzo, la maldicenza, la mediocrità. Io ero unico nel mio lavoro. Trentatré anni, un fiume di donne. Conoscevo gli orari d’arrivo di tutti i treni: io ero lì – francesi, tedesche, olandesi – ero lì – nessuna tecnica precisa, nessuna parte recitata a memoria – inglesi, americane, giapponesi – ero sempre lì. Mi ha aiutato la conoscenza delle lingue, ché io ho viaggiato molto. Il tedesco ha quattro casi, due meno del latino: è una lingua complicata; ad esempio, lo stato in luogo, che in latino si rende con l’ablativo, in tedesco lo costruisci col dativo. Il russo anche ha i casi, ma sei, come il latino. La vita è dura. Io studio, sempre – anche se non ho finito il liceo -, studio da me: biologia molecolare, astrofisica. Sono appassionato di letteratura ferroviaria, modellismo. Mi sono sempre fatto molte domande. Ma chi si interroga soffre.

Ho nostalgia delle mie donne, con alcune sono stato per dei mesi, con una due anni, addirittura. Mi innamoravo, e di conseguenza soffrivo: una sofferenza moltiplicata per il numero delle mie avventure. E facevo soffrire. La mia natura mi complicava la vita, mi impediva di accontentarmi, di placarmi. No, non ho mai avuto una donna di qui, né mai ho pensato di sposarmi: come possono convivere due sistemi nervosi diversi? Mia madre soffriva per me, voleva che mi sposassi, che la finissi con le straniere. Però ogni volta che gliene presentavo una nuova, lei si compiaceva del mio successo, era fiera di me.

Personalità, magnetismo, fascino, intelligenza? Chiamalo come vuoi: io non cercavo di apparire in un certo modo: ero, cioè sono nel mio modo. Perdona l’immodestia, io sono unico. Hanno cercato di imitarmi, ma dove sono gli eredi di Orlando? Allora hanno cominciato a distruggermi, con la calunnia. Ma perché? Io rendevo un servizio a questa città: amavo le donne sole in cerca di umanità e di verità, senza finzioni, senza maschera. Agrigento era uno scenario perfetto per il mio lavoro: i templi, il mare, le trattorie. Suonavo la chitarra, avevo un gruppo di amici, tutti andati via, compreso Paolo che era una specie di allievo, di discepolo, tutti via: sposati, emigrati, sconfitti.

Avrei voluto che questa città mi amasse, invece mi giudicava per la camicia sbottonata, per gli zoccoli, il medaglione: ma quello era il mio stile, senza nessuna affettazione, ero io, io, Orlando.

Ora vivo da eremita, con i gatti, che mi amano, non per gratitudine – perché li sfamo – ma perché sono esseri degni, migliori degli uomini. Lo so che questa è una banalità, un luogo comune, ma bisogna avere la mia esperienza per potersi permettere il lusso dei luoghi comuni. Forse tu pensi che io abbia trasferito freudianamente sui gatti la mia passione per le donne, ma non è così. O forse sì, chi lo sa?

Mio fratello, che fa il magistrato a Lucca, ed è vicino alla pensione, mi ha comprato la casa dove abito; mi manda dei soldi ogni tanto, mi vuole bene: vorrebbe che io lavorassi. Non so cosa farò, il futuro non riesco a vederlo. Forse fra un anno ritornerò alla grande con le turiste, o forse renderò ancora più estremo il mio eremitaggio.

Orlando Randisi è mancato alla sua città il 17 agosto 2020, all’età di 73 anni.