Dalla miseria alla “grandeur”, dai pescatori di Aci Trezza, divi del cinema loro malgrado, al blasone di una città che si autocelebrava attraverso il suo teatro d’opera, dal pane e olive degli “ultimi” alle cene nelle dimore aristocratiche con negli occhi ancora lo scintillìo degli stucchi dorati del Basile e negli orecchi gli applausi del pubblico. E poi le piazze maestose nel contrasto tra il marmo rilucente delle statue e il nero della pietra lavica, il sole che accecava agli Archi della Marina e il ristoro all’ombra nera dei vicoli dove far rivivere il dramma del colera e quello della novizia Maria. Erano questi contrasti che ammagavano Zeffirelli, fu questa Sicilia, forse come nessun’altra terra a stregarlo, tranne il verde collinare della sua Toscana e certe brume dei villaggi inglesi.

Arrivò con Luchino Visconti, la prima volta, ed era l’autunno del 1947, a girare «La terra trema», quel film che diede fremiti contemporanei ai “vinti” verghiani e che fu l’accademia sua e di Francesco Rosi. Rimase già allora stregato, su quel set che avrebbe battezzato un realismo che gridava il diritto ad un riscatto non soltanto sociale ma anche espressivo, che guardava a un’utopia estetica oltre che a una rifondazione morale e politica, quella che Visconti avrebbe poi continuato ad affinare con gli altri “ultimi” di «Rocco» ma trapiantati nel suo Nord.

Dopo quel debutto da forestiero nell’isola, ci furono per Zeffirelli i fasti del teatro, soprattutto al Massimo, a Palermo, l’opera lirica col suo linguaggio multiforme, immenso, orecchie ed occhi dentro i quali confluiva un sogno che lui aveva già capito benissimo non poteva essere solo di canto e di trine ma anche storia, racconto, psicologia. Ecco perché quel suo “spiegare” l’opera. Ricordano che alle prove della «Linda di Chamounix” che fu il suo esordio sul palcoscenico del Massimo nel 1957, interruppe una prova chiedendo scusa a Tullio Serafin che dirigeva, per dire a Doro Antonioli, il tenore: «Ecco, adesso cerca di far capire un po’ cosa ti salta in mente a questo punto».

Sarebbe tornato poi al Massimo, già due anni dopo, nel 1959, con la storica «Figlia del reggimento», scenografia ispirata alle stampe popolari di Epinal (così come i suoi stessi costumi), allestimento che tuttora, regista Filippo Crivelli, è vivo e vegeto e viaggia per i teatri del mondo. E per tutti gli anni ’60 e in parte durante i ’70 (ma già era troppo conteso da Covent Garden e Metropolitan) avrebbe diretto «L’italiana in Algeri», «Lucia», «Falstaff», «I puritani» che aveva una scena che sembrava ispirata dalla Chiesa della Catena, alla Cala. Più e più volte, anche portando spettacoli che aveva firmato per la Scala e altri teatri lirici, accolto dalla benevolenza di sovrintendenti-mecenati e da segretari generali che assecondavano anche i suoi capricci.

Per questo fu vicino a Palermo e ai palermitani quando il teatro-simbolo della città restò chiuso – per ammodernamenti alla fine in parte non completati – per 23 anni e la lirica fu “esiliata” al Politeama, uno scandalo che in un altro Paese avrebbe sollevato le masse o quantomeno gli intellettuali e che qui si liquefaceva in una sciroccosa rassegnazione tra progettisti che inseguivano la gloria in mezzo a decori polverosi che non risuonavano più di alcuna nota e che poco alla volta stavano finendo per farsene la più sontuosa delle sepolture. Tuonò indignato, Zeffirelli, in un’intervista al “Giornale di Sicilia” firmata da Francesco Giambrone che avrebbe poi ritrovato assessore alla Cultura al tempo della riapertura del teatro e in seguito ancora sovrintendente del teatro stesso e nella sua Firenze, al Maggio.

E ieri il Massimo ha accolto il suo pubblico con una grande foto dell’artista fiorentino sulla sua scalinata per la “prima” di «Pagliacci» di Leoncavallo: un’idea, quella di rappresentarla «a solo», senza la coeva «Cavalleria» a completare la serata, che era stata proprio di Zeffirelli, per il Maggio Musicale, al Comunale di Firenze vent’anni fa, nel 1999.

Altre sortite al Massimo, il regista le ha fatte “da amico”: per il debutto di una cantante-amica o per quello di un’opera. Venne, ad esempio, alla “prima” de «La visita meravigliosa» di Nino Rota nel febbraio del 1970, una serata «soccorsa – come scrisse Gioacchino Lanza Tomasi il giorno dopo nella sua recensione – dalla presenza di tutto il cinema italiano riconoscente» e in quell’occasione fu intervistato da un giovane Giuseppe Sottile. Leggenda vuole che poi, tra le sortite “private”, ce ne fu una “di sostegno” ad Annamaria Guarnieri, giovane, bellissima e bravissima Giulietta del suo Shakespeare del 1965 accanto ad un altro giovane, bello e bravo come Giancarlo Giannini-Romeo. L’attrice non stava bene nei giorni delle recite palermitane al Teatro Biondo. Zeffirelli prese un aereo da Roma, scese giù, la venne a trovare, confortandola. Le leggenda finisce con il regista che la raccomanda al portiere del teatro, all’uscita degli artisti perché le faccia trovare ogni sera il taxi per l’albergo. Altri tempi, altri artisti.