Più che odore di muffa, a Palermo si respira odore di fuffa. Più che un gesto d’amore per la città, per dirla con gli organizzatori (e i partecipanti), l’ultima tavolata del centrodestra sembra lo strenuo tentativo di costruire un carrozzone in grado di vincere le elezioni – i numeri ci sarebbero pure – ma che faticherebbe senz’altro, con nove partiti al seguito, a mantenere una direzione di marcia univoca. Qualcuno ha chiesto di azzerare nomi e candidature: ad esempio quelli di Sicilia Futura, l’ultimo dei movimenti ad aver ottenuto un invito per la rimpatriata di mercoledì sera. Nato, con Totò Cardinale, per allargare al centro il Partito Democratico, si è ritrovato contiguo a Forza Italia, con cui di recente ha stretto una federazione a palazzo dei Normanni, e con la quale si propone di fare liste uniche alle prossime Regionali oltre che alle Amministrative.

Il centro siciliano è diventato una lista di cespugli e buoni propositi – altro che atto d’amore per la città – che sta finendo inesorabilmente per confondere gli elettori. Il tentativo di isolare gli ‘estremi’ non appare attuale né conveniente: altrimenti la discesa in campo di Davide Faraone, in una posizione equidistante dalla destra e dalla sinistra, sarebbe stata accolta come una tiepida rivoluzione. Invece di tiepido, per non dire glaciale, c’è il commento di chi fino all’altro ieri ha trovato ospitalità nel partito di Renzi e persino alla presentazione del suo libro, a Palermo, nonostante i rapporti fossero già sul bordo di un burrone: Edy Tamajo ha parlato di “farneticazioni”, Nicola D’Agostino, l’altro deputato di SF all’Ars, di “poca cosa”. Sancendo, di fatti, una scissione. L’ennesima. Non tocca certo al cronista dire quale delle due parti abbia ragione o torto, al massimo potrebbe avventurarsi nel giochino delle convenienze. Sicilia Futura ha più chance di tornare al governo della città, dov’è stata fino all’altro ieri con Italia Viva, aderendo al centrodestra. Ma la lettura è talmente semplicistica da apparire banale.

Il tornaconto dei partiti, anche se non lo ammetteranno mai, è il filo conduttore di questa sit-com palermitana. E di programmi (ammesso che vada ancora di moda discuterne) non si parlerà finché i cardinali non eleggeranno un Papa. Anche le discussioni sul metodo – primarie sì primarie no – è specioso: Micciché ha già detto di non volerle. Ma chi sarebbe pronto ad assumersi un rischio simile? E con quanti nomi in ballo? Certo non si può organizzare una consultazione nei gazebo fra 7-8 candidati (quelli attuali) né alle porte del Natale. Fra gennaio e febbraio rischia di essere troppo tardi, perché la questione Quirinale fa da tappo. Per questo Salvini aveva chiesto di trovare una soluzione entro novembre. Macché. “C’è una via di mezzo fra correre e arrivare all’ultimo momento – ha ripetuto Micciché a Repubblica – Dobbiamo discuterne con calma”.

E in effetti la contrattazione procede a rilento. Sono passati quasi venti giorni fra il primo vertice dell’hotel Politeama e il successivo. Sono serviti per aggiungere alla lista alcuni partiti: dalla Democrazia Cristiana di Totò Cuffaro, che aveva minacciato di fare da solo; a Sicilia Futura, di cui s’è detto; passando per il Cantiere Popolare di Saverio Romano, che più di chiunque altro vorrebbe spostare il baricentro dalla parte dei moderati, e per questo ha chiesto il coinvolgimento di Italia Viva e addirittura di +Europa. Correndo il rischio di portare a undici il numero di partiti, e di affiancare i simboli della Bonino e della Meloni, per citarne due a caso, nella medesima scheda elettorale.

Sarebbe molto più facile (e, forse, sensato) sganciarsi da questo purpurrì e ricreare un’area meno esposta ai sovranismi: con Italia Viva, la Dc, il Cantiere Popolare e magari Più Europa, che a Palermo, in Consiglio comunale, viaggia a braccetto con Azione di Calenda. Un patto dei paccheri rivisitato. Ecco: proprio Faraone, che non ha alcuna paura di consumare le suole delle scarpe (ha percorso a piedi la Ragusa-Catania) e girare per quartieri, potrebbe rappresentare il nuovo Calenda de noantri. Un candidato sui generis, che ha molto di politico, poco di civico e pochissimo da perdere. S’è già distinto, ieri, citando i partecipanti alla reunion di centrodestra e prendendone le distanze: “Diciannove uomini attorno ad un tavolo senza le donne. Un tavolo per soli uomini, un club per signori maschi dove le donne non sono state ammesse. Chissà perché. Diciannove politici per decidere il futuro di Palermo: una città che può e deve dare di più. Se è questa la premessa, la vedo proprio nera”.

Su una candidatura al femminile s’era pronunciato Totò Cuffaro, ma fin qui le uniche signore iscritte alla partita provengono dall’altra metà campo: si tratta di Rita Barbera, ex direttrice del carcere dell’Ucciardone; e Mariangela Di Gangi, l’attivista dello Zen. Posto che per fare il sindaco di Palermo il sesso non dovrebbe essere un problema, queste presenze alimentano ulteriore confusione. Perché, anche se nessuno se n’è accorto, pure la sinistra sta lavorando alacremente per superare il primo scoglio: Leoluca Orlando. La sua presenza sulla scena – ancora viva e vegeta – influenza i rapporti fra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico. Che a Palermo sono molto meno chiari che alla Regione. C’è da superare, più coi fatti che a parole, l’infinita stagione del professore, a cui i grillini si oppongono da quasi dieci anni. E siccome Orlando non ha alcuna voglia di uscire dal giro (si è parlato di una sua candidatura al Consiglio comunale) tanto meno il Pd potrà cancellarne le impronte con un colpo di spugna, essendo un dirigente di partito che ha appena rinnovato la tessera, ecco che la trattativa si complica. Ed è persino più indietro rispetto al centrodestra: due vertici a uno.

Rispetto allo schieramento avversario, a sinistra i candidabili sono a stento suggestioni: l’ex assessore alla Sanità del governo Lombardo, Massimo Russo; l’ex presidente del Senato Pietro Grasso; il vice di Orlando, Fabio Giambrone; il deputato ambientalista del M5s, Giampiero Trizzino (l’unico a farsi avanti ufficialmente). Ora più che mai è fondamentale stabilire il perimetro, e poi il metodo (il ‘campo largo’, su questo aspetto, è condizionata dalla lentezza di Giuseppe Conte, che non ha ancora nominato il referente regionale dei grillini). Pd e Cinque Stelle sono più propensi – anche storicamente – di quanto non lo sia il centrodestra a sperimentare le primarie. Ma quando? Ci sarà abbastanza tempo? La melina genera confusione. E la zavorra è di quelle imponenti.

Lo scenario di Palermo è totalmente destrutturato. Ma anche alla Regione, dove però si vota nell’autunno 2022, non si scherza. Attualmente l’unica preoccupazione è stare in scia a Musumeci, alle sue piroette repentine, e al nugolo di assessori che – al netto delle indicazioni dei partiti – gli ronzano intorno facendogli credere di essere il migliore, se non l’unico, candidato possibile. Anche la sua ultima fuga, di cui sarebbero garanti Meloni, Salvini e Berlusconi, è stata stoppata sul nascere da Gianfranco Micciché: “Se qualcuno mi chiama e mi chiede “hai niente in contrario se mi ricandido?” che io dica “no” non significa via libera. Le cose si discutono – ha insistito il coordinatore regionale di Forza Italia -. Ma soprattutto resta un punto: le decisioni si prendono in Sicilia”. In sostanza: se Musumeci prova ad accreditarsi coi leader nazionali, sperando di ottenere il via libera definitivo, si sbaglia di grosso. Ma è vero anche il contrario: che la decisione dei coordinatori regionali passerà da una ratifica romana. Musumeci, che offre a destra e a manca una federazione con la sua Diventerà Bellissima, conosce a menadito le regole del gioco. Però fa più scena il tono da comizio, la claque plaudente, i gregari che si prostrano di fronte al capitano. Fa più scena, ma sa di fuffa.