Le vecchie volpi – quelle che lo avevano incoronato re del loro piccolo e rancoroso regno – credevano che Pietro Grasso fosse un condottiero dietro il quale si sarebbero schierate folle sempre più oceaniche di elettori ed estimatori. Credevano – povero D’Alema, povero Bersani – che la sua aureola di ex magistrato potesse catalizzare il consenso di quell’ostinato popolo della sinistra per il quale non c’è altro orizzonte se non quello dell’antifascismo e della legalità, dell’articolo 18, buonanima, e delle università senza più tasse, né per i poveri né per i ricchi. Credevano, insomma, che sotto quella toga, già logorata da cinque anni di contaminazione con la politica, ci fosse ancora uno statista capace di parlare al Paese con i toni alti e persuasivi che la gravità del momento avrebbe richiesto. E invece no.

Grasso, travestito velocemente da leader, si è rivelato un fallimento. Un borghesuccio piccolo piccolo che, dopo avere vinto la lotteria nel 2013 con quel repentino passaggio da procuratore nazionale antimafia a presidente del Senato, voleva cinque anni dopo staccare il secondo biglietto e mantenere così il proprio posto nel catalogo degli uomini potenti. L’impresa gli sembrava a portata di mano: quale elettore del Sud o del Nord avrebbe mai negato il proprio voto all’uomo che, negli anni ’80, fu giudice a latere nel primo maxi processo contro i quattrocento boss che Giovanni Falcone aveva incatenato e portato nell’aula bunker dell’Ucciardone, a Palermo? E quale elettore del Sud o del Nord avrebbe mai resistito al fascino della sua teoria secondo la quale, al di là di ogni verità giudiziaria sulle stragi di mafia c’è sempre una trama oscura da disvelare e un regista occulto da smascherare?

Invece gli elettori sono stati più furbi di lui e lo hanno bocciato senza pietà. Nel collegio uninominale di Palermo dove si è presentato sicuro di vincere e forse anche di stravincere, il leader di Liberi e Uguali è arrivato quarto: dopo il candidato grillino, dopo il candidato del centrodestra, dopo quello del Pd. Liberi, uguali e inesistenti. Una batosta difficile da dimenticare.

Ma Grasso, che in Parlamento ha comunque rimesso piede grazie a “santo” proporzionale, sta vivendo nelle ultime ore un momento di ulteriore imbarazzo. All’ex presidente del Senato, infatti, è stato recapitato un decreto d’ingiunzione del giudice, che lo obbliga a versare al suo vecchio partito, il Pd, una cifra prossima a 83mila euro.

Il contenzioso fra Grasso e i “dem”, cui l’ex pm avrebbe provato a mettere una pezza chiedendo un incontro al tesoriere Bonifazi, è esploso dopo il suo passaggio a Leu. Il Pd, amante tradito, ha chiesto indietro le 1.500 euro al mese che Grasso, durante la permanenza a Palazzo Madama, non versò mai (venendo meno ai patti). Il partito, che non sa più come pagare la cassa integrazione ai suoi dipendenti, ha preteso così contromisure ferree.

Da qui un decreto d’ingiunzione rivolto a 63 parlamentari, fra cui Grasso. Che adesso si difende e (timidamente) contrattacca: “Evidentemente il tesoriere del Pd, che ha svuotato le casse con la scriteriata campagna referendaria e con le megaconsulenze ai consiglieri americani, scelte di cui a farne le spese sono stati i dipendenti, ha bisogno di scaricare su altri le colpe della sua pessima gestione e provare a trasformarle in un mezzo strumentale e propagandistico. Quando arriverà il decreto, può star certo che farò opposizione”. Perché? “Da presidente del Senato, come so essere norma, non ho ritenuto di finanziare alcuna attività politica”.

Una vecchia storia di quattrini rischia, più del 4 marzo, di aver segnato la decadenza di un giudice dato in pasto alla politica.