Non è ancora chiaro se e quando prenderanno i soldi – tanto meno chi potrebbe darglieli – ma una cosa è certa: gli imprenditori siciliani non si fidano più. Sono rimasti ad aspettare mesi la prima tranche della cassa integrazione in deroga, quando è arrivato il primo schiaffo del lockdown. E anche adesso, un po’ per indole, un po’ per sano realismo, osservano le decisioni del governo e sentono puzza di bruciato. Gli incassi coleranno a picco – nel caso di palestra e piscine, addirittura, verranno azzerati – e non è la promessa tempestiva di un indennizzo da parte dello Stato a tenerli su di morale.

Il premier Conte ha annunciato che il prossimo maxi-decreto sarà di natura economica e finirà in Consiglio dei Ministri già oggi, quando l’esecutivo si raduna per la prima volta dopo la nuova stretta di domenica. Ballano circa 5 miliardi. Che il premier ha promesso di distribuire quasi a pioggia, sul conto corrente di chi farà richiesta (e avrà le carte in regola). Soggetto attuatore: l’agenzia delle Entrate. Il decreto “ristoro” – è così che si chiamerà – prevede di salvare le attività (bar, pasticcerie, ristoranti) che non potranno più somministrare ai tavoli dopo le 18, ma anche i lavoratori stagionali. E i luoghi della cultura, che vedono prolungare la propria stagione di fermo. Oltre alle palestre. Un altro provvedimento riguarda il rinnovo della cassa integrazione in deroga per diciotto settimane.

Dovrebbero partire subito 1,2 miliardi a fondo perduto, in anticipo sulla Legge di Bilancio che sarà approvata entro l’anno. “Vogliamo dare il contributo in automatico, senza bisogno di fare domanda a tutte le imprese che l’hanno già avuto – ha detto il viceministro all’Economia, Antonio Misiani -. Stiamo pensando di ampliare la platea, sforando il limite di 5 milioni di fatturato, quindi anche alle imprese maggiori, e a contributi più rilevanti per le imprese e le attività dei settori completamente bloccati. Ci sarà una differenziazione tra chi terrà aperto fino alle 18 e chi sarà bloccato h 24”. Ma secondo Mattia Feltri, direttore dell’Huffington Post, “nel Decreto Ristoro sono contenuti due miliardi di aiuti per il settore, che però assomma 232 mila aziende, e fa 8600 euro ad azienda”.

Solo che la Sicilia è una terra a sé. Con un’economia debole e già provata. Nelle prime stime dell’Istat si sono persi oltre 10 punti di Pil e non eravamo ancora a metà anno. Non è facile ricomporre i cocci. Nel secondo trimestre del 2020 nell’Isola sono andati in fumo oltre 75 mila posti di lavoro. Il turismo, un settore su cui si regge il 15% del Prodotto Interno Lordo, ha funzionato solo ad agosto dove, smaltita la paura, la Sicilia è stata la porzione d’Italia più ricercata. Poi è arrivato il nuovo stop. Cinema e teatri hanno ripreso a funzionare in parte, avendo dovuto abbattere la capienza delle sale. E’ uno stillicidio di opportunità a cui nessuno pensava di dover concedere il bis. E invece, eccoci.

I sindacati riuniti hanno chiesto a Musumeci un incontro perché “riteniamo che la tutela del lavoro, insieme a quella della salute, sia oggi indispensabile per la tenuta della coesione sociale e del tessuto democratico ed economico della regione”.  Mentre la federazione dei pubblici esercizi di Confesercenti, Fiepet, vede tutto nero: “Il provvedimento, di fatto, mette in stato di lockdown la somministrazione. Chiudere alle 18, significa rendere impossibile o quasi il proseguimento dell’attività per molti locali che aprono solo la sera. Bisogna intervenire subito o le imprese non resisteranno. Abbiamo applicato tutti i protocolli di sicurezza e oggi il nostro comparto e le attività del tempo libero sono gli unici ad essere danneggiati dal provvedimento. Senza provvedimenti immediati rischiamo di non arrivare neppure a Natale”. L’errore più grave, è già accaduto nei mesi scorsi, sarebbe sovrapporre l’emergenza sanitaria a quella economica, tralasciando la seconda.

Anche i cinema sono sopraffatti dalla preoccupazione: “L’ultimo provvedimento del governo nazionale, con il conseguente stop alle attività, avrà un impatto devastante sulle sale”, dice Andrea Peria, presidente di Anec Palermo (associazione nazionale esercenti cinema). “Siamo fortemente preoccupati, riteniamo la misura ingiusta e irrispettosa rispetto allo sforzo degli imprenditori che hanno adottato tutte le misure a favore della riapertura in sicurezza – aggiunge – Siamo consapevoli come cittadini, prima che come imprenditori che la priorità collettiva è rivolta alla salvaguardia della vita e della salute della popolazione, ma è di assoluta importanza fugare ogni dubbio rispetto al fatto che la chiusura del comparto cinematografico non è dovuta a criticità legate alla sicurezza, garantita invece con livelli altissimi. Del resto – sottolinea Peria – i dati contagio nelle sale cinematografiche confermano la assoluta sicurezza degli ambienti per lavoratori e spettatori”.

Le luci potrebbero spegnersi prima di accendere le luminarie. Sarebbe un disastro. E se a Catania qualcuno ha sfidato l’autorità – della serie “io il bar non lo chiudo, vediamo che succede” – la preoccupazione monta. Mesi di sacrifici per acquistare il plexiglass, separare i tavoli, attrezzare le aree comuni con tutte le precauzioni sanitarie, vengono spazzati via. E’ il momento che precede la resa, in cui si elabora il lutto. Ma la conta dei danni non è ancora completa. Manca una stima reale. Eppure “non ci riprenderemo”, ha detto Gianfranco Micciché, presidente dell’Ars, che ha avuto una conversazione con Musumeci per capire come muoversi. “Potremmo arrivare allo scontro istituzionale con Roma”, ha detto. Si valuta una soluzione “interna”, come quella adottata in Alto Adige e a Sutri (il paesino amministrato da Vittorio Sgarbi, in provincia di Viterbo), per allungare almeno di qualche ora la vita di bar e ristoranti. Lo stesso Musumeci ha confermato ieri sera, al Tg2 Post, che verrà avanzata al governo una richiesta di deroga.

La Regione, però, non sembra avere le carte in regola per determinare un miglioramento delle condizioni di vita dei siciliani. Il primo tentativo è stato un flop clamoroso. Della famosa Finanziaria di guerra (definita la più “imponente” di sempre) che avrebbe dovuto fornire un contributo immediato a famiglie e lavoratori in difficoltà, sono stati erogati appena 30 milioni. I primi. Destinati all’emergenza alimentare. Poi è stato cancellato il “click day” per le microimprese (valore: 125 milioni di euro); sono stati pubblicati da pochissimi giorni gli avvisi per l’esenzione dal bollo auto e per gli operatori del turismo (37 milioni). Non è stato speso un solo euro per la riapertura in sicurezza delle scuole, che nel frattempo hanno richiuso (l’unica mossa dell’assessore Lagalla, in questi mesi di nulla, è un richiamo tromboneggiante al dirigente dell’Ufficio scolastico regionale, reo di aver denunciato le carenze); né per gli operatori sanitari; tanto meno per i Comuni, che sono ancora in attesa di un fondo di perequazione da 300 milioni. La manovra da 1,4 miliardi – quanta grazia – rimane bloccata nei fondali della burocrazia, che ha reso carta straccia l’annuncite cronica della politica.

Le priorità vengono sfalsate dal miraggio di “soldi facili”. Alcuni dei nostri sedicenti rappresentanti, come se niente fosse, vorrebbero inserire nel Recovery Fund il Ponte sullo Stretto. Quando si dice perdere di vista la realtà. Se è questa la reazione alla crisi, qualsiasi speranza – attuale e futura – potrebbe risultare vana. Musumeci, che sa di avere pochissime risorse e una capacità quasi nulla di erogarle, aveva implorato il governo di stare dalla parte delle imprese, senza accentuare la stretta. Non ce l’ha fatta. E ora dovrà fare i conti (pure) con se stesso.