Il 29 luglio 1983 avevo da pochi giorni sostenuto l’esame di maturità e mi godevo l’estate più lunga e spensierata della mia vita, quando a Palermo, in quello che molti definirono un attentato “libanese”, caddero, vittime della mafia, Rocco Chinnici e i suoi “fratelli”, Mario, Salvatore e Stefano. Pochi mesi prima, il Consigliere Istruttore aveva incontrato gli studenti di Agrigento, nell’aula magna dell’allora Istituto Magistrale. Ricordo un uomo serio, sereno, con una distinzione d’altri tempi. Dopo il suo intervento, il dottore Chinnici sollecitò le domande dei giovani presenti, seguì un silenzio un po’ imbarazzato, forse i docenti non avevano preparato il terreno o forse la timidezza dei provinciali ebbe un qualche peso. Mio padre, preside del Liceo Classico, da dove era seduto, prossimo al magistrato, mi rivolse uno sguardo, nel quale mi parve di cogliere il seguente messaggio: “Parli sempre, a volte a sproposito, non farti pregare proprio adesso”. Alzai la mano e formulai una striminzita domandina sulla relazione tra la mafia e la scarsa propensione dei siciliani al rispetto delle regole generali di convivenza. Mi sedetti e attesi la risposta, mortificato per il modesto contributo che avevo saputo dare a quella giornata, in tutto simile al manzoniano “Si figuri!” che il sarto rivolge al cardinale Borromeo. Da allora, nel mio personalissimo pantheon, Giovanni e Rocco, seduti accanto, mi guardano un po’ così. (tratto dalla pagina Facebook di Giandomenico Vivacqua)