“Una comune parete, un monumento che racconta di un paese che vuole dimenticare una della pagine più buie della sua storia moderna, che preferisce mettere la testa sotto la sabbia, che preferisce l’oblio”.

A parlare è Antonio Zangara, attraverso un lungo post su Facebook. A dire il vero si tratta di uno sfogo, uno sfogo amaro. Antonio è figlio di Salvatore Zangara, un uomo tranquillo, dalla vita tranquilla. La parete, in piazza a Cinisi, è quella che fu trivellata dagli stessi colpi che lo uccisero e che ferirono altri ignari passanti. Totò Zangara, titolare di un laboratorio di analisi, segretario locale del PSI, la sera dell’8 ottobre 1983 ebbe la sventura di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. In quegli anni per le strade di Cinisi si sparava.

Era in corso la seconda guerra di mafia: da una parte i corleonesi, dall’altra don Tano Badalamenti e i suoi alleati. Le frizioni tra i Badalamenti e i Di Maggio, da sempre ostili, si erano acuite dopo la morte di uno dei figli di don Procopio in un oscuro incidente stradale (un altro figlio sparirà da Cinisi nel 2000). L’obiettivo del commando quella sera di trentacinque anni fa era proprio don Procopio Di Maggio. Riuscì a scampare a quello e ad altri due attentati fino a raggiungere e festeggiare, prima di morire, i cento anni. «La seconda volta fu nel 1983 in piazza a Cinisi. Ero con quattro conoscenti quando si avvicinò un’auto e cominciarono gli spari. Uno dei miei interlocutori fu colpito alla schiena, un altro all’altezza della cravatta, l’altro ancora sulla guancia, il quarto lo uccisero. Io rimasi illeso. Crede che se avessero mirato a me sarei qui a raccontarlo?», disse in un’intervista a “l’Unità” lo storico capomafia di Cinisi, una condanna al maxiprocesso e indicato come uno dei componenti della commissione di Cosa nostra.

Oggi «in quella che sembra una normale parete di un normale palazzo», come la descrive il figlio Antonio, non c’è nessuno a ricordare Zangara, tranne i familiari e i ragazzi dell’associazione che porta il suo nome. L’amministrazione comunale di Cinisi, guidata da Giangiacomo Palazzolo (nonostante l’invito a commemorare la figura di Zangara avanzato da alcuni consiglieri dell’opposizione nel corso di una seduta consiliare), anche quest’anno ha preferito non ricordare il sacrificio di quel borghese piccolo piccolo, un “cinisaro” tutto casa, lavoro e sezione che con la mafia, rispetto a tanti altri suoi concittadini, non aveva nulla da spartire. Muore per mano mafiosa Zangara, ma incredibilmente diventa un nome scomodo per Cinisi. «Da quel momento Cinisi sembra abbia dimenticato quel giorno funesto», scrive ancora Antonio. Dovranno infatti passare ben 12 anni dall’omicidio per vedere su quella parete una targa in memoria del povero Zangara. «Ma l’indomani – scrive ancora Antonio – apparve un’altra targa che imponeva il divieto di affissione, non finalizzata a proteggere la targa in memoria, ma il cui chiaro e inequivocabile messaggio era di manifestare la non gradita presenza».

Oggi come allora Cinisi preferisce non ricordare quel nome divenuto suo malgrado pesante. Una vittima, certo, ma riconducibile comunque a un’epoca storica segnata dalla mafia che Cinisi tende a dimenticare e scrollarsi definitivamente di dosso. Nello stesso giorno dell’anniversario della morte di Salvatore Zangara il sindaco Palazzolo celebra però una conquista: l’aeroporto di Palermo porterà anche il nome di Cinisi. «Adesso i passeggeri che arriveranno in aeroporto e sentiranno benvenuti all’aeroporto di Palermo Cinisi. E’ la più grande operazione di marketing che si possa fare», dice Palazzolo. Già, marketing. Per dirla alla Miccichè, uno arriva a Cinisi, sente il nome Zangara e già si deprime. A Cinisi ricordare gli innocenti morti ammazzati in paese per mano mafiosa non rientra nel marketing.