Salvo Pogliese dice di non aver mai cambiato partito. Sono i partiti che hanno cambiato lui: prima venne il Movimento Sociale Italiano – l’attuale sindaco di Catania cominciò a fare politica nel Fronte della Gioventù – poi Alleanza Nazionale, infine le esperienze un po’ più spurie con il PdL e Forza Italia. Ora raccoglie i cocci della sua avventura di giovane politico rampante (ha fatto il sindaco, ma anche il parlamentare europeo e il deputato all’Ars) e li rimette insieme. Giovedì scorso, in una sala dell’hotel Sheraton tirata a lucido, ha comunicato il suo “ritorno” a casa. Fratelli d’Italia, la sala d’attesa dei sovranisti. Di quelli che non si riconoscono più nella politica incerta e ondivaga del Cavaliere di Arcore. E che non sono ancora pronti – o per un pizzico di vergogna, o perché trovano i porti chiusi – a salire a bordo del Carroccio.

L’unica alternativa è Fratelli d’Italia, il partito della Meloni che negli anni s’è evoluto. Ha cambiato arredamento – è passata dal nero al blu, nel solco del gruppo dei conservatori europei – ha moderato i toni ma neanche tanto (“Affondate la Sea Watch” ha detto di recente la sua leader), e oggi si appresta a diventare la seconda gamba di un centrodestra sempre meno al centro. La prima stampella di Salvini. Da quella parte non c’è più spazio da occupare e le scelte sono quasi obbligate: o stai con Salvini o ti butti sulla Meloni. Pogliese e Catanoso, assieme a sindaci ed amministratori vari, hanno scelto la seconda. Stanno provando a ricostruire, a parole, un’identità andata persa nell’ultimo decennio. Passato a inseguire le mode del momento. Prima Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, poi Angelino Alfano – addirittura alleandosi col Partito Democratico – hanno modificato geneticamente le coscienze di una classe dirigente che a destra si era costruita e affermata.

Prendete Musumeci: nel ’94 diventa presidente della Provincia di Catania con una sola lista al seguito (MSI-Destra Nazionale). La cosa più nera che ci sia (“Ora Sicilia” di adesso, con Genovese e la Lantieri, diventerebbe rossa per l’imbarazzo). Il “fascista perbene” resta ai vertici per un paio di mandati (la cosiddetta Primavera di Catania, nonostante Enzo Bianco), confluisce in Alleanza Nazionale, fin quando alcuni dissidi con Fini gli suggeriscono di forgiare la sua creatura: Alleanza Siciliana. Dura poco, il tempo di un’elezione strapersa contro Cuffaro nel 2006, perché poi è il momento de “La Destra” con Francesco Storace. Un partito senza appeal, ridotto a macchietta di fronte all’incedere del Popolo della Libertà, che nel 2009 segna la fine di AN e la nascita di una nuova casa dei moderati. Ahi, che parola. In molti si turano il naso e si arruolano, pur sapendo che Fini, il leader mancato, finirà fagocitato da qualcuno più abile e più forte. Finche si parla di PdL, continueranno ad esistere gli ex AN. Ma quando Berlusconi decide di riavvolgere il nastro, è una diaspora.

Entrare in Forza Italia è più difficile che uscire dal PdL, e in pochi credono al “rilancio” della Meloni, che a fine 2012 fonda i Fratelli d’Italia con Ignazio La Russa (un altro che Catania la conosce bene essendo di Paternò), ma resta annacquata sulla scena politica siciliana. Qualcuno, gioco forza, rimane con Berlusconi, e in Sicilia si compatta (e si scorna) con Gianfranco Micciché. Qualcun altro, attratto dalle sirene del potere, approda sulla zattera di Angelino Alfano. Politico di medio corso, discepolo del Cavaliere e, incredibilmente, tre volte ministro: della Giustizia, dell’Interno e degli Esteri. Le ultime due con Renzi e Gentiloni. Il territorio catanese, smarrito, si affida ai santi del momento. Gente come il senatore Pino Firrarello, il genero Giuseppe Castiglione e il “pupillo” Giovanni La Via trasbordano nel Nuovo Centrodestra, un partito che non esiste, non essendosi mai misurato alle elezioni. Firrarello fa il puparo dalla sua poltrona di sindaco di Bronte, Castiglione diventa sottosegretario, La Via fa gli sguazzi all’Europarlamento.

Funziona finché funziona. Non tanto per la verità. Appena Alfano si sgancia, evitando di prestare il suo volto alla disfatta delle Politiche dell’anno scorso – aveva già dato, affondando Micari e il Pd alle Regionali, in cui La Via era il candidato vice-governatore – in massa si presentano alla porta di Berlusconi (e Miccichè) per rientrare in Forza Italia. Chi per opportunismo, chi ammettendo i propri errori: “Angelino non s’è consultato prima di comunicare la sua uscita. Se uno prende decisioni autonomamente, non può pretendere di essere informato quando poi gli altri decidono” disse Firrarello ai giornali, preannunciando il tradimento ad Alfano e il suo ritorno in Forza Italia. Che è sempre stata grande, ora un po’ meno, e accoglie tutti. Non sarà quel rifugio di ex fascisti insofferenti, che dalle parti dell’Etna, qualcuno si ostina a reclamare, ma è pur meglio di niente.

La disgregazione, però, è sempre dietro l’angolo e si materializza, a destra, alla vigilia delle Europee. Per qualcuno che entra, c’è sempre qualcuno che vorrebbe andar via. Per tutta una serie di fattori: dai migranti a Salvini, dai fondi per Catania agli insopportabili vitalizi, compresa la mancata ricandidatura di La Via a Bruxelles (bollata da Miccichè come una “provocazione”). L’insofferenza di Catania, così, viene fuori: se ne vanno il sindaco Pogliese e Basilio Catanoso, vice-coordinatore regionale. Forza Italia su quel versante resta nuda (il commissario provinciale Marco Falcone ha deciso nei giorni scorsi di sciogliere il gruppo in Consiglio comunale), ma è in ottima compagnia.

Anche Musumeci, che mezza Catania l’ha portata al timone della Regione, non ha fatto nulla per evitare dolorose separazioni. Emarginando, ad esempio, la figura di Raffaele Stancanelli (i due si erano scontrati nel 2008 per diventare sindaco, vinse Stancanelli), che all’ultimo giro elettorale lottò con le mani e con i piedi per convincere il governatore ad entrare in affari con la Meloni. Niente, “restiamo neutrali. Fratelli d’Italia è un partitino che non si è mai schiodato dal 2-3%”. Un atteggiamento svizzero, quello di Musumeci, che l’ha di fatto allontanato da una compagine ritenuta “troppo sovranista”. Ma non l’ha fatto desistere dall’inseguimento a destra, da un piano diabolico coltivato (persino) con una visita a Pontida: mettersi col “capitano” a farlo trionfare al Sud. Chissenefrega se è sovranista come e più della Meloni, per il momento tira.

Stavolta, però, il buon Nello non ha preso precauzioni e ha dovuto fare i conti coi muscoli di Salvini, che di Genovese e Lantieri non sa che farsene: “Allearmi con Musumeci? Pensi prima a fare il governatore” ha detto, scocciato, il ministro dell’Interno durante l’ultima visita a Caltagirone. Musumeci, così, rimane un po’ meno destrorso di prima. Spodestato dai leghisti e da Stancanelli. D’altronde, mesi fa, a Cefalù, aveva capito anch’egli che l’elettorato cui ambire stava al centro o stava a casa. Lo avevano capito i fieri esponenti del suo movimento, Diventerà Bellissima, che dietro i pizzi e i merletti del cambiamento, hanno finito col trascurare la loro vera anima. Qualche mese fa, durante il congresso, alcuni ex missini, senza darlo a vedere, non si capacitavano del “moderatismo” di Musumeci e di Enzo Trantino. Che commentando la svolta al centro del suo capo la bollò come “coraggiosa”. Tutti di destra, ma che destra?