Era un venerdì, come oggi, quel 21 settembre 1990; dalle nostre parti si andava ancora al mare. Come ogni mattina, alle otto e mezza sono entrato in redazione, a Teleacras. Sulla mia scrivania avevo uno scanner, quelle radio sintonizzate sui canali di polizia e di carabinieri: strumento indispensabile per un cronista di nera in quel tempo di guerre di mafia, in quel lembo di Sicilia che guarda il Mediterraneo.

Dieci minuti e una voce metallica gracchia un inquietante “codice rosso, codice rosso… nota personalità… portatevi sulla 640”. Ho chiamato il cameramen, siamo saltati in macchina e siamo corsi sullo scorrimento veloce Agrigento-Caltanissetta. In fondo a una scarpata di campagna brulla, sul letto di un fiume che non c’era più, un lenzuolo bianco copriva il corpo imbottito di piombo del giudice Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” come lo avrebbe definito più tardi Francesco Cossiga. Aveva 37 anni e diceva che “un magistrato non deve solo essere integerrimo e imparziale, ma deve anche apparirlo”.

I suoi carnefici lo avevano affiancato con un’auto e con una moto, mentre lui, da solo, senza scorta, andava al lavoro con la vecchia utilitaria. Gli hanno sparato, lo hanno ferito, lui è sceso dalla macchina, è scappato giù nella campagna, cercando un’improbabile salvezza. I killer lo hanno inseguito. Lui è caduto. Uno gli ha puntato la pistola in faccia: “Ma che vi ho fatto, picciotti?”, ha fatto in tempo a chiedere il giudice. Quello ha sparato, “tieni, pezzo di merda”, gli avrebbe detto. Un colpo in faccia e ha spento la vita del giudice che aveva capito, prima di altri, che per azzoppare la mafia bisognava colpirne i patrimoni.

Li hanno presi tutti i sicari: erano quattro picciuttazzi, tre di Palma di Montechiaro, uno di Canicattì; hanno preso pure i mandanti, quasi tutti di Canicattì, la stessa città di Livatino. Li hanno condannati all’ergastolo. E’ stata determinante la collaborazione di uno di loro, uno che aveva pianificato il delitto del giudice, senza però parteciparvi: si chiamava Giuseppe Croce Benvenuto, oggi chissà che nome avrà. Lo consideravano uno dei capi della stidda, la mafia dei pastori, una banda di cani sciolti che faceva la guerra a Cosa Nostra, salvo poi farsi strumentalizzare. L’ho incontrato molti anni dopo in una località segreta, mi ha raccontato tutto la verità sulla stidda e sul delitto di Livatino.

E’ vero che lo ha fatto la stidda quell’atroce omicidio. Ma dietro c’è una verità clamorosa che dopo sette lunghi anni di indagini e di ricerche, parlandone con alcuni dei protagonisti di quel tempo, con gli stessi esecutori materiali, ho raccontato nel libro “Cani senza padrone”, (Melampo editore, 2017). Oggi, ventotto anni dopo, i ragazzi di quegli orrori sono uomini maturi che il carcere ha cambiato. Uno di loro, Gaetano Puzzangaro, ha chiesto perdono per quel delitto. Hanno capito gli errori dell’ignoranza di quella giovinezza bruciata e hanno avviato percorsi di resipiscenza. Sono diventati uomini nuovi. Ma l’ergastolo ostativo li ha condannati all’oblio. Nelle loro sentenze c’è scritto: “fine pena: 31 dicembre 9999”.

La copertina del libro di Carmelo Sardo