Davide Faraone, prima di staccarsi e seguire Renzi, l’aveva messo nero su bianco: “Da quando mi hanno fatto fuori, il Pd siciliano è sparito”. Ma per capire che il partito navigasse in acque torbide, non serviva la chiamata alle armi del Conte bis, dove i “dem” dell’Isola, neanche per un istante, si sono giocati un posto nel sottogoverno. Tutti esclusi, e nessuno ha fiatato. Da questi parti il Pd ne ha combinate troppe e Nicola Zingaretti, che solo da un paio di mesi ha sciolto il nodo del segretario, invalidando il congresso, non se l’è sentita di premiare gli autori di una stagione fallimentare. Sia sotto il profilo elettorale (alle Politiche del 4 marzo è stata la peggior batosta di sempre), sia nell’azione di governo (remember Crocetta?) che nel rapporto con la base. Mai convolta – nemmeno per eleggere uno straccio di coordinamento – e sempre più derisa.

Non è più la sinistra di una volta. E questo lo sanno bene Faraone – che ha cercato di rottamare i “padroni delle tessere” e fare una battaglia per strada – ma anche i vari Cracolici, Lupo, Crisafulli e Piccione, che non hanno mai accettato l’idea (renziana) di costruire “un Pd fuori dal Pd”. Lo strappo, annunciato dall’ex segretario a Buttanissima, si è consumato addirittura prima della Leopolda. E qui non c’è nulla che Alberto Losacco potesse fare. Già, Alberto Losacco. Per chi se ne fosse dimenticato, è lui il reggente del Pd siciliano da fine luglio. Da quando, cioè, la commissione nazionale di garanzia ha fatto fuori Faraone – il partito gli aveva offerto un ruolo nella direzione nazionale pur di indurlo a mollare Via Bentivegna – cancellando con un colpo di spugna la terribile parentesi congressuale. Ecco, Losacco. Un rappresentante di Areadem, franceschiniano convinto, di Brindisi. Ha incontrato una nutrita schiera di deputati in un ristorante del centro, a Palermo, prima delle vacanze estive dell’Ars. Ha parlato con tutti e approfondito con nessuno. Si sono ridati appuntamento a settembre.

Non è facile ripartire dalle macerie, per carità, ma tutto quel popò di roba che si credeva utile alla rinascita – il tesseramento, i congressi locali e provinciali, un congresso regionale – fin qui è carta straccia. Ignota ai più. Via Bentivegna, la sede nel cuore di Palermo che Faraone aveva riaperto, ha abbassato le serrande; il profilo Facebook Pd Sicilia è andato in avaria; e persino le bandiere, che si erano viste sventolare in piazza, nei siti culturali dimenticati da Musumeci, sulla Ragusa-Catania, sono tornate in soffitta. Il Pd si è spaccato ancora (sono nati i pontieri di Dipasquale e “New Deal” dell’ex segretario Raciti), e poi è sparito. E Faraone ha alzato il tiro, spiegando come l’insussistenza del partito, nell’Isola, sia costata la faccia a Roma. Mai nessuno, in verità, ha pensato di inserire nella squadra dei sottosegretari la renziana Sudano, la franceschiniana Piccione, o il rettore di Messina Navarra. Nessuno li ha consultati. Pare che l’unica richiesta sia arrivata proprio a Faraone, che però ha declinato.

E non inganni la presenza di un ministro nisseno, della provincia di Crisafulli, nel governo coi Cinque Stelle. Peppe Provenzano ha poco a che fare, quasi nulla, col Pd de noantri. Zingaretti aveva avuto una folle idea: nominarlo commissario. Poi ha preferito non bruciarlo. Meglio ministro. Ma lo stesso Provenzano, al di là della stima diffusa, è avulso dalla realtà sicula, da questo eterno teatro dello scontro. E’ cresciuto all’ombra dell’ex ministro Andrea Orlando, e in Sicilia ebbe una furtiva apparizione alla vigilia delle Politiche di un anno e mezzo fa, quando se ne andò sbattendo la porta dopo che la figlia di Totò Cardinale venne scelta come capolista nel collegio di Caltanissetta. Stop. Fine della storia. Tocca a Losacco riprendere il vessillo e farlo sventolare. Senza i renziani. Tre anni ci separano dalle elezioni Regionali. C’è abbastanza tempo per scuotersi dall’anonimato.

Per un commissario che non s’è mai visto, ce n’è uno che non s’è più visto. L’ex sottosegretario all’Interno della Lega, il bustocco che più bustocco non si può, Stefano Candiani. Diventato celebre per le sue sfuriate contro Micciché e Forza Italia e per la puzza sotto il naso con cui ha accolto tutti coloro che cercavano di arrampicarsi sul Carroccio di Salvini, dal 20 agosto in poi ha fatto perdere le tracce. Fino a una manciata di giorni fa, quando da Busto Arsizio ha fatto battere un comunicato stampa in cui, ribadendo che l’unica voce della Lega è quella del “capitano”, annunciava l’ennesima rivoluzione: dentro 42 nuovi commissari comunali. La nuova classe dirigente che fa i voti ad Alberto da Giussano. A luglio era toccato al direttivo regionale e ai commissari provinciali.

Il primo a reagire alla redistribuzione delle poltrone è stato di Carmelo Lo Monte, uno dei leghisti siciliani più longevi. Ha mal digerito che Candiani, definito “il giullare da due soldi di Salvini”, avesse commissariato anche la sua Messina. E se n’è andato in punta di piedi (ha aderito al gruppo Misto della Camera dei Deputati). Ma neanche troppo: “Matteo Salvini? Il signore lo benedica, ma a lui del Meridione non frega nulla”. Non che Lo Monte abbia farcito di coerenza la sua attività politica (una decina di partiti li ha girati). Eppure c’è una dichiarazione che spiega il malumore di tanti altri: “Nessuno di quelli che avevano vinto alle politiche del 2018, gli è più andato bene. Sono arrivati i lombardi, ci hanno mortificato ripetutamente con gesti inspiegabili”.

Candiani non è mai riuscito a risolvere le frizioni tra il vecchio e il nuovo gruppo dirigente. Schierandosi apertamente a favore del secondo (i vari Cantarella, Gelarda, Francilia), senza mai – però – rinunciare al primo. Soprattutto in campagna elettorale. La candidatura di Attaguile alle Europee, pur con il sostegno dei Genovese alle spalle, è la contraddizione più lampante. Così come la presenza sempreverde di Alessandro Pagano. E sempre Candiani ha sfasciato i propositi di Musumeci, che con Salvini aveva cercato di stringere un rapporto talmente leale da creagli una stampella all’Ars, la futura terza gamba. Peccato che ci abbia messo dentro un altro Genovese (Luigino, questa volta), un ex leghista poco intraprendente (Rizzotto) e un paio di transfughi (Lantieri e Ternullo, appena sostituito da Gennuso, un altro che con la giustizia ha faticato). Candiani non ha mai benedetto quest’accordo e, anzi, pubblicamente, l’ha ripudiato. In nome della buona politica.

Ora che il Carroccio in Sicilia ha perso le coordinate – Salvini non potrà più giocare a battaglia navale con le Ong, dato che non è più ministro – il ruolo del suo proconsole, e commissario, si è svuotato all’improvviso. E il 20% alle Europee è un lontano ricordo rigato di malinconia. Restano due eurodeputati – Annalisa Tardino e Francesca Donato – e un percorso interrotto a metà. Fino alla prossima campagna elettorale, quando si capirà se i siciliani hanno ancora fiducia in Matteo. Fino ad allora, difficilmente lo rivedranno.