Pare che sebbene un nuovo direttore artistico oggi dovrebbe uscir fuori dal Consiglio d’amministrazione del Teatro Biondo, non ci saranno scampanii né colpi di cannone a salve. Dicono che nonostante un nome debba comunque sbucare, previo bando, tra i dodici autocandidatisi in busta chiusa, non sia contemplata atmosfera da larghi sorrisi ma solo protocollare soddisfazione. Sussurrano che maschio o femmina, di corso artistico più o meno lungo, la disillusione resterà dipinta su più volti. Fuori il nome, in ogni caso, qualunque sia per lo Stabile di Palermo vergognosamente lasciato a bagnomaria nello stagno dell’insipienza della politica e del suo stesso vertice che ha governicchiato l’ordinario in questi tre mesi lasciando tutte le gatte da pelare a chi siederà su quella poltrona.

Nonostante parte dei soldi sia arrivata, la nuova banca tesoriera trovata (Prossima di Intesa San Paolo), gli stipendi pagati (ma non i cachet degli artisti delle tre produzioni e delle compagnie ospiti già andate in scena), il Biondo è come un corpo a cui sia stata sottratta l’anima, un bel teatro all’italiana con la sua antica pianta a ferro di cavallo ma svuotato di spirito, fino a ieri rianimato soltanto dalla magia di Slava, il mimo russo creatore di poetici intrattenimenti scenici, ma umiliato dai magheggi illusori del «do ut des» di politici e burocrati.

Qualcuno si è stupito (o si è addirittura lagnato) che nessuna grande firma nazionale del teatro si fosse fatta avanti nel dopo-Alajmo, per volontaristica spinta – amore nei confronti di quegli storici legni, semplice afflato verso l’Arte – oppure attraverso il bando stesso. A frotte registi su registi, anche interpellati dagli stessi giornalisti, si sono sottratti all’abbraccio. No, grazie. Forse bisognava chiedersi quale grande firma nazionale del teatro sarebbe andata a cacciarsi nelle morse di un teatro che – per esempio – ha più volte innalzato il suo ultimo direttore artistico all’onore dell’altare per ricacciarlo subito dopo nella polvere. Legato storicamente a doppio filo a Palazzo delle Aquile (per una noncuranza della Regione che al Comune ne ha quasi totalmente lasciata la gestione nonostante ne sia, per pubblico denaro, il socio “di maggioranza”) il Biondo ha campato sui giri dell’anemometro piazzato in cima a Piazza Pretoria, sugli spostamenti umorali di quelle stanze.

Alajmo nel 2013 rappresentò il nuovo dopo il mesozoico carrigliesco, grandi entusiasmi e grandi progetti ma – passate appena due stagioni – lo Stabile che era il fiore all’occhiello della politica culturale del Comune (insieme con il Teatro Massimo) diventò per il sindaco Orlando, nel volgere di appena due settimane, la pecora nera tra le «partecipate» dell’amministrazione, praticamente affiancato a munnizza-acqua-gas, absit iniuria verbis. Del repentino capovolgimento in molti non si diedero pace. C’è chi dice di improvvise ingerenze esterne che abbiano minato il rapporto Orlando-Alajmo, c’è chi addirittura sussurra di un post su un social non gradito al primo cittadino (vergato da Sandro Tranchina, ineffabile organizzatore teatrale, allora braccio destro di Alajmo, che si svincolò dall’incarico e volò subito dopo a Mosca dove tuttora lavora), e comunque dimissioni di Alajmo, Orlando riportato sulla retta via dell’intesa, dimissioni ritirate da Alajmo e, come nei salmi, tutto finito in gloria.  Ma passano altre due stagioni e s’affacciano inattese le brame del centrodestra regionale (autunno scorso) che, come svegliatosi da un torpore durato anni in tema di potere teatrale, chiede la testa di Alajmo in cambio di un suo nome nuovo e anche stavolta il direttore artistico – sebbene in procinto di chiudere il suo primo mandato ma con buone possibilità di vederlo rinnovato – si trova da un giorno all’altro scaricato dagli artigli dell’Aquila pretoria e di fronte ad un bando in cui il Cda cerca il suo successore.

A questo punto, illudersi che un nome prestigioso da Trieste in giù venisse a spendere i suoi giorni preda di questo bipolarismo artistico-politico sarebbe stato leggermente pretenzioso.

Anche perché l’affaire Biondo è pure passato in cavalleria nell’attenzione dell’intellighentia cittadina, vuoi quella più vicina alle faccende del teatro che quella che dei fatti della scena è soltanto spettatrice pur se assidua e partecipe. Non un motto né una mossa: come se qualcuno morettianamente si fosse chiesto “mi si nota di meno se sto zitto, se sto dalla parte di Alajmo o se sto da quella di Orlando?”, non il senso di una manifestazione di solidarietà nei confronti del teatro, non quello di uno striscione, di un lenzuolo, di un reading di protesta, di una raccolta di firme, di un flash-mob. Niente. Solo qualche riga, sempre sui social, qualche attestato di vicinanza all’ex direttore artistico, poi tutto quasi sotto silenzio.

Chissà se oggi, a nome fatto, qualche reazione la città la tirerà fuori.  Anche se, stiracchiata così per come è stata, la vicenda avrà un finale comunque senza pathos, qualunque sia il nuovo direttore, anche il più degno di rispetto: sembrerà, suo malgrado, e questa sarà una fatica ulteriore per accreditarsi, un vincitore che, indossata la divisa, è salito sul carro, figlio della realpolitik più che dell’illusion comique.