Il governo della Regione continua a collezionare pasticci in serie. E siccome non bastavano gli assessori, ci si mettono pure i dirigenti. L’uscita di Mario La Rocca, responsabile del Dipartimento di pianificazione strategica dell’assessorato alla Salute, ha scoperto un altro “nervo”: quello della trasparenza. Che Nello Musumeci, pochi giorni fa, aveva eretto a baluardo del proprio lavoro. La chat di La Rocca, inoltre, ha avuto il (de)merito di accendere le opposizioni, che aspettavano mercoledì – la giornata in cui verrà discussa la mozione di censura all’assessore Razza – per sfoderare le asce. L’hanno fatto prima. Il M5s chiedendo a Razza di dimettersi, il Pd presentando un esposto alla Procura della Repubblica e chiedendo a Musumeci di rimuoverlo. Mentre Claudio Fava pretende da Roma (e lo otterrà) l’invio di alcuni ispettori per far luce nel buio di questa gestione sanitaria.

Tutto ruota attorno al numero dei posti-letto di Terapia intensiva che la Regione, nelle ultime settimane, avrebbe predisposto (secondo un doppio step: 15 e 30 novembre) e comunicato, man mano, al Ministero. Un numero assai elevato, che secondo alcuni sindacati, in primis il Cimo, il sindacato dei medici ospedalieri, non corrisponde alla realtà. La Sicilia è stata una delle regioni più virtuose durante la prima ondata, con appena 94 “positivi” e 9 decessi. Ma dopo l’estate la situazione è precipitata. E l’Isola, a causa di un sistema di tracciamento in tilt, dell’alto numero di focolai, e di un sistema sanitario sotto pressione, è finito dritto in “zona arancione”.

La sofferenza, però, si vive all’interno dei reparti. Non nelle statistiche, che raccontano altro. Secondo gli ultimi dati forniti da Agenas (l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), infatti, risulta occupato solo il 23% dei posti letto dei reparti di Terapia Intensiva. Pochi rispetto alla soglia critica del 30%; e ancora meno rispetto alle altre regioni italiane (17 su 21 sono già con l’acqua alla gola). Il Ministero, in una precedente stima al ribasso, aveva contato 817 postazioni, di cui una buona fetta (399) riservata ai pazienti Covid. Ai sindacati, però, qualcosa non torna: “Ne mancano duecento”. Gli ultimi spifferi di La Rocca in chat hanno fatto il resto e ingigantito il quadro.

La mattina del 4 novembre, in una chat coi manager delle Asp, il superburocrate invita a caricare su un paio di piattaforme la lista aggiornata dei posti letto. Provincia per provincia. Ospedale per ospedale. Dice a tutti, in maniera brusca, che da quei dati dipende la classificazione del rischio della Sicilia. Da lì a poche ore, infatti, il nuovo Dpcm ci avrebbe relegato in “zona arancione”. In realtà, il Ministero della Salute aveva tenuto conto di un vecchio report (19-25 ottobre), ma i modi risoluti e bruschi di La Rocca, oltre alla denuncia di “ingerenze” da parte di alcuni manager rimasti anonimi, hanno aperto uno squarcio nel “palazzo di vetro” di Musumeci. E inflitto un duro colpo, l’ennesimo, alla credibilità del governo. Razza, che sperava di presentarsi all’appuntamento con la mozione in forma più smagliante, ha spiegato che “al governo ci sono persone perbene” e “ai cittadini bisogna dire la verità”. “Non entro nella polemica sindacale – ha chiarito l’assessore -, mi basta che la Società italiana di anestesia e rianimazione abbia detto che abbiamo ragione noi”. Saranno i Nas a valutare.

La chat, però, ha già fatto abbastanza danni. Come è successo, qualche mese fa, al pizzino in cui l’ex direttore generale al Lavoro, Giovanni Vindigni, “trattava” col Siad (sindacato autonomo dei dipendenti) per il riconoscimento di dieci euro per ogni pratica di cassa integrazione lavorata dagli uffici. Una pessima figura che, sommata alla lentezza della Regione nell’istruire i decreti (che si traduceva nella mancata erogazione delle somme da parte dell’Inps), costrinse Musumeci e Scavone, l’assessore al ramo, a una conferenza stampa auto-assolutoria, e il povero Vindigni, colpevole di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, a dimettersi. Anche in quel caso il M5s provò a farla pagare a Scavone, ma la mozione di censura si arenò all’Ars.

Le brutte figure si stagliano nell’arco temporale della pandemia, e non è detto che siano finite. Una ha visto protagonista, suo malgrado, Mimmo Turano, assessore alle Attività produttive, quando la mattina del 5 ottobre, a poche ore dal via, la Tim informò i dirigenti di Arit e Attività produttive che il click-day era saltato. Sarebbe servito a liquidare i 125 milioni del Bonus Sicilia – prima misura attiva della “Finanziaria di guerra” – a favore delle microimprese che si erano dovute fermare durante il lockdown. Il tentativo fu riproposto per il giovedì successivo, 8 ottobre, ma alla vigilia fu lo stesso Turano a convocare una conferenza stampa e annunciare ai giornalisti che non era aria. La Tim, in qualità di gestore della piattaforma informatica su cui avrebbe dovuto tenersi la selezione, non poteva assicurare sul suo corretto funzionamento. E costrinse la Regione a un imbarazzante passo indietro. Musumeci, che quella volta preferì non metterci la faccia, istituì un “pool d’inchiesta”, con tre ispettori di propria nomina, per risalire ai responsabile – Turano ha addossato le colpe all’Arit, l’autorità per l’innovazione, che dipende dall’assessorato all’Economia – ma fin qui i risultati di questa indagine complessa non sono mai venuti a galla. E tutti sono rimasti al proprio posto.

Non è esente da figuracce – tutt’altro – l’assessore al Bilancio, Gaetano Armao. Che, a distanza di otto mesi dall’approvazione, non è riuscito a tirar fuori un fico secco dalla Finanziaria di un miliardo e mezzo. Ad eccezione del click-day sballato e di pochissimi avvisi (operatori turistici, tassisti e noleggio con conducenti, editori). Legando gran parte delle risorse a una mastodontica riprogrammazione di fondi extraregionali, prevalentemente europei, che hanno una gestazione lunga per alcuni versi, incerta per altri. Era nata come una “manovra di guerra” ispirata dall’emergenza, si è rivelata una pistola ad acqua.

Tra i numerosi flop degli ultimi mesi, va conteggiato anche il tentativo – “di pancia” – di imporre la Dad ai ragazzi delle superiori. Nell’ordinanza di fine ottobre di Musumeci, che precedeva di qualche giorno il Dpcm Conte (che, a differenza di palazzo d’Orleans, manteneva il 25% delle lezioni in presenza), il direttore dell’Ufficio scolastico regionale Suraniti trovò qualcosa di strambo: “Il breve preavviso – si limitò a osservare con garbo – non consentirà alle istituzioni scolastiche di intervenire tempestivamente e di organizzarsi al fine di rendere fruibile immediatamente per tutti gli studenti la didattica a distanza”. L’assessore Lagalla tromboneggiò furioso: qui decide la politica. Nel giro di pochi giorni, dimostrando di aver preso l’ennesimo granchio, il passo indietro fu d’obbligo: Dad sì, ma solo al 75%.

Al comando di questa squadra di Giufà, feroce e pavido al tempo stesso, resta però il governatore Nello Musumeci. Non è scontato, né facile gestire una pandemia – questa premessa è obbligatoria – ma il governatore non ha mai brillato per coerenza. L’ultima sequenza di episodi lo conferma. Ricordate Musumeci all’indomani del Dpcm di inizio novembre, che spediva la Sicilia in “zona arancione”? Dopo aver contestato con un durissimo comunicato la decisione del Ministro Speranza, reo di non averlo consultato, il presidente della Regione – che fino a poco tempo fa spifferava all’Ars l’idea di una legge “deroga” per mantenere bar e ristoranti aperti fino alle 23 – è arrivato, giovedì scorso, a firmare un’ordinanza per la chiusura di tutti i negozi la domenica e nei festivi, salvando a malapena il “servizio a domicilio”. Ma nel giro di ventiquattr’ore, una circolare del capo della Protezione Civile ha, di fatto, riaperto bar, pasticcerie, pizzerie e ristoranti (e, in seconda battuta, anche i panifici), dando loro la possibilità dell’asporto. Le opposizioni hanno parlato di “schizofrenia normativa”. L’ultima di una lunga serie.