Ci deve essere lo zampino della lobby della Somma Coincidenza dietro il perfetto allineamento di tre fatti che oggi fotografano una Sicilia in cui il rischio mafia non è mai scemato. Da un alto l’arresto del nuovo capo della cupola di Cosa nostra Settimo Mineo, dall’altro la trasferta, tutta dedicata ai giovani di Caltanissetta, dello spettacolo che ho scritto con Salvo Palazzolo sui misteri delle stragi Falcone e Borsellino. Nel mezzo l’omaggio del Teatro Massimo, che questo spettacolo lo ha prodotto, alla memoria di Ennio Fantastichini con le “Parole rubate” eccezionalmente disponibili oggi sulla sua web tv.

Ma al di là delle coincidenze, gli ultimi eventi di Palermo ci raccontano una verità che spesso non vogliamo vedere: e cioè che esiste ancora una mafia forte e organizzata che non conosce prepensionamenti. Insomma il fattore tempo è un elemento che tende a rafforzare l’organizzazione criminale, anziché indebolirla. Nelle nostre “Parole rubate” ad esempio il baricentro della narrazione è sulle stragi del ’92, ma il ragionamento sul “metodo del delitto” a Palermo si allarga di decenni. Vecchio e nuovo sono concetti accessori dinanzi alla strategia monolitica dei mafiosi che tendono a perpetrare un potere che non conosce stagioni: il boss che non usa cellulari nell’èra della comunicazione globale è una specie di extraterrestre, ma è anche il simbolo di una resistenza criminale che sfida la nostra tecnologia con la protervia di una segretezza medioevale. Tutto ciò accade in un contesto in cui buoni e cattivi non sono due squadre contrapposte ma purtroppo vaghe categorie di polarizzazione degli umori, delle convenienze, delle bandiere politiche, con molti stadi intermedi. Un esempio su tutti: il depistaggio sulla strage di via d’Amelio dove sinora la colpa è stata veicolata solo sui morti, un evergreen quando si parla di un famoso sport nazionale, il getto del peso della responsabilità.