I tempi che cambiano non hanno più la faccia greve e il corpo tozzo da contadino di Totò Riina, ma quella ingannevole di un borghese come tanti, con la camicia linda e il golf blu, e gli occhiali da nonno intellettuale, dietro ai quali non si agitano gli occhi spiritati del suo predecessore stragista, ma quelli apparentemente più melanconici di un uomo che ha campato di mafia all’antica, di quella che non voleva fare rumore, fino a divenirne l’ultimo capo.

Settimo Mineo voleva riportare Cosa Nostra a quella che faceva affari senza botti, senza sparare e senza ammazzare. Voleva ricondurla lontana dalla feroce politica dei corleonesi di Riina. Ci lavorava da tempo, ma lui e gli altri boss palermitani, hanno dovuto aspettare che morisse lo zio Totò. E quando l’anno scorso Riina è morto, è arrivato il successore. E’ arrivato il tempo di questo gioielliere 80enne che scampò a un agguato mafioso nell’82 in cui morirono due suoi fratelli, che quando venne arrestato la prima volta nell’84 provò a difendersi con un teatrale “signor giudice, cado dalle nuvole”. Che tornò in galera nel 2006, si fece un po’ di anni, e una volta libero ha aspettato che arrivasse il suo momento. Ma il suo regno è durato poco. Con le investigazioni di oggi, don Settimo per quanto fosse guardingo, non poteva sfuggire. E se è stato lui a prendere il posto di Riina, questo conferma quanto sosteneva lo stesso padrino di Corleone quando intercettato in carcere sparlava di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile boss di Castelvetrano, latitante da 35 anni: non era lui l’erede, lui, Matteo u signurinu, il più pericoloso, comanda nella sua provincia, quella di Trapani, e tutti in Sicilia sono certi che da lì non si sia mosso: ma nessuno riesce a stanarlo.