E’ una vittoria di Pirro, lungamente attesa, ma che ha permesso a Musumeci di sventolare la bandiera (stracciata) del cambiamento: il prossimo 30 giugno si torna a votare per l’elezione dei sindaci metropolitani e dei presidenti dei Liberi Consorzi di Comuni. Festa grande. Che serve a distrarre dall’inconcludenza di una manovra finanziaria che costringe i precari a levatacce inutili di fronte a Palazzo dei Normanni. Peccato che non ci saranno urne, le scuole rimarranno chiuse e che le ex province, da questo bagno festante di democrazia, non caveranno un ragno dal buco: non un euro in più per i dipendenti, tanto meno per i servizi. Che risultano sempre più approssimativi per la cura del territorio (leggasi strade), dell’edilizia scolastica e dei servizi sociali.

Tutto si muove, ma in realtà il cambiamento che si delinea è appannaggio della politica: si libera un posticino in più nella casella delle poltrone da occupare. E non sarà il popolo a stabilire le nuove cariche, bensì sindaci e consiglieri comunali, chiamati a eleggere “superiori” che sanno già di avere le armi spuntate. Si chiamano elezioni di secondo grado. Il governo Musumeci ha battagliato per ottenerle, e alla fine ce l’ha fatta. Una piccola ricompensa (o un moto d’orgoglio) rispetto alla decisione della Corte Costituzionale che aveva respinto la richiesta di procedere all’elezione diretta di quegli organismi che Crocetta, nel 2013, ha pensato bene di sotterrare durante un’apparizione da Giletti.

Ora restano le ferite, profonde. E i vuoti in Bilancio. Il prelievo forzoso esercitato dallo Stato negli ultimi anni ha portato Siracusa al dissesto e altri enti a un passo dal default (tecnicamente il “pre dissesto”). E ha impedito a numerosi funzionari di ricevere lo stipendio. Tanto che qualche giorno fa il sindaco metropolitano di Messina, Cateno De Luca, ha mandato in ferie 700 dipendenti a fronte degli 840 in organico “come forma di protesta nei confronti dello Stato e della Regione Siciliana, responsabili della grave situazione finanziaria dell’Ente. I restanti 140 dipendenti – ha affermato De Luca, non nuovo a proteste esemplari – resteranno in servizio per garantire i servizi essenziali quali la Protezione Civile e parte della Polizia metropolitana. Si tratta di una situazione paradossale determinata dal meccanismo diabolico del prelievo forzoso attuato per contribuire al risanamento del debito pubblico ed in cui l’esclusivo creditore è lo Stato. Oggi ci ritroviamo uno squilibrio di 12 milioni di euro per l’anno 2018 che rischia di far saltare circa 300 milioni di euro di investimenti”. Dal prossimo mese di febbraio molti enti non potranno pagare gli stipendi ai dipendenti perché le tesorerie hanno bloccato il pagamento di ogni mandato.

Proprio a causa della cronica carenza di personale e della mancanza di strutture, la viabilità secondaria – quelle che rientra fra le competenze delle ex province – in Sicilia è all’anno zero. I soldi per rifare le strade ci sarebbero, ma mancano i progetti. O gli appalti rimangono bloccati. Una questione gravissima che si ripercuote sullo stato delle arterie e ha fatto rabbrividire il ministro Toninelli, che, indossato l’elmetto, ha fatto una ricognizione in numerosi cantieri dell’Isola e ha implorato Musumeci di richiedere l’intervento di un commissario speciale. Detto, fatto. Sarà nominato da Roma. Ma nel frattempo le strade sono piene di buche e impediscono alla Sicilia di viaggiare verso il futuro. Altro che Tav o treni Hyperloop.

Le ex province, che dovrebbero trovare spazio in uno dei quattro “collegati” alla Finanziaria – al momento accantonati a Palermo per la cronica carenza di fondi – sono state al centro della conferenza Stato-Regioni che si è tenuta il mese scorso a Roma. E anche in quel caso Musumeci sembrava aver portato a casa un discreto risultato: ossia la possibilità di un adeguato sostegno “ai Liberi Consorzi e Città Metropolitane della Regione Siciliana, al fine di garantire parità di trattamento rispetto alle Province e Città Metropolitane del restante territorio nazionale e di favorire l’equilibrio dei relativi bilanci”. In soldoni, un piano d’investimento da 540 milioni per la manutenzione delle strade e delle scuole. Quaranta milioni dovrebbero arrivare nei primi due anni (a partire da quello in corso), i restanti 500 in comode rate da 100 milioni fino al 2025.

Qualora la Finanziaria dovesse tornare in aula con buone notizie dal Ministero dell’Economia – ossia la rateizzazione dei 540 milioni “in bilico” nei prossimi trent’anni – e anche i collegati dovessero intraprendere un iter parlamentare degno di questo nome, in uno di essi è scritto che la Regione si farà carico dei mutui accesi dalle ex province con la Cassa Depositi e Prestiti, per sbloccare investimenti su scuole e strade e per garantire fornitori e dipendenti. Il debito residuo di Città Metropolitane e Liberi Consorzi ammonta a 230 milioni, di cui 80 fanno capo a Siracusa (cui l’assestamento di Bilancio operato dal governo Musumeci a fine 2018 ha garantito un paio di milioncini giusto per respirare). Ma nel frattempo che l’orizzonte si schiarisca, i dipendenti lo scorso 8 febbraio hanno protestato a piazza del Parlamento, a Palermo, contro il disinteresse del governo. Hanno ottenuto di incontrare l’assessore al Bilancio Armao, che però ha sottolineato ai sindacati come la questione parta da lontano, cioè da Roma.

In questo mare di incertezze, l’unico paletto lo ha fissato Musumeci con un post su Facebook: “Finalmente! Il 30 giugno cesserà la gestione commissariale delle ex province siciliane. Lo abbiamo deciso nell’ultima seduta del governo regionale. Dopo circa cinque anni, tra qualche mese gli Enti intermedi non saranno più guidati da commissari nominati dalla Regione ma da presidenti scelti dal singolo territorio. Ci dispiace solo che non saranno gli elettori a scegliere il 30 giugno chi dovrà guidare la propria Provincia, ma i rappresentanti eletti nei vari Comuni di appartenenza: insomma, una elezione di secondo grado, un accordo tra partiti. Così ha voluto il governo Crocetta, in linea con il governo Renzi. Ci siamo opposti con tutte le nostre forze a questo esproprio del diritto al voto dei cittadini, ma non c’è stato nulla da fare. Nel frattempo, dal 2013 il governo di Roma toglie alle Province dell’Isola oltre 200 milioni di euro l’anno (si chiama prelievo forzoso), costringendole di fatto alla paralisi se non al fallimento”.

L’elezione torna ad essere un giochino fra partiti e una sfida tra colleghi che indossano la fascia tricolore. Meglio, certamente meglio, di quando era Crocetta (la pratica è proseguita per circa un quinquennio) a stabilire il colore e i nomi dei commissari, che di proroga in proroga rimarranno al loro posto fino a luglio. Poi ci sarà spazio per figure nuove, più rappresentative delle istanze popolari. Peccato che, come i loro predecessori, avranno comunque le mani legate.