In politica ci sono due categorie di pensiero: la prima, che va per la maggiore, ma finisce spesso col mascherare un coacervo di invidie e di tensioni, è quella di chi – alla vigilia di una nuova competizione elettorale – chiede di stabilire il perimetro, scrivere un programma, e solo alla fine scegliere un candidato; e poi c’è la seconda, quella di chi preferisce le fughe in avanti. Di quest’ultima, oltre a Nello Musumeci, fa parte pure Claudio Fava. Ossia l’altro candidato in pectore, che il “campo largo” di sinistra, però, stenta a riconoscere.

Musumeci e Fava, mai così distanti come negli ultimi tempi (e attaccati ferocemente alla polemica, l’uno nei confronti dell’altro), adottano la stessa strategia ma da prospettive differenti: l’uno a compimento del quarto anno di legislatura, affidandosi alla regola non scritta che assegna un’altra chance al presidente uscente (anche Crocetta ne fu tentato, prima di capire che sarebbe stato francamente troppo); l’altro, Fava, per prendere d’infilata il centrodestra, tuttora in crisi d’identità, e avviare una  campagna elettorale lunga e sfiancante, con lo scopo però di “rompere il silenzio” e “scuotere le acque”. Raccogliendo l’invito del direttore di Repubblica per una sorta di Stati generali della sinistra, il presidente della commissione Antimafia, che da mesi anticipa la propria disponibilità, ha suggellato l’impegno: “C’è un pezzo di Sicilia che vuol sapere se può tornare a fidarsi di noi: scegliere di non parlarne per miopia o tatticismo sarebbe imperdonabile”.

Giocare d’anticipo, secondo Fava, è la strategia giusta. Anche se il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle, che dovrebbero trainarlo verso la conquista di palazzo d’Orleans, per il momento nicchiano. E a tratti lo rinnegano, giocherellando con le parole, cercando una costruzione alternativa: dal “basso”, si direbbe nel calcio. Ma il playmaker per il momento non c’è. Esistono due centravanti che, nelle ultime settimane, stanno cercando il giusto affiatamento: si tratta di Giancarlo Cancelleri, già candidato un paio di volte alla carica più importante; ed Anthony Barbagallo, già visto al governo (con Crocetta) nel ruolo di assessore al Turismo, e infaticabile segretario del Pd, che fra mille difficoltà sta tentando di offrire al partito una possibilità dopo le scoppole più recenti e un correntismo esasperato. Se Musumeci si è trovato a zigzagare fra le macerie di Crocetta, Barbagallo ha dovuto raccogliere i cocci di una stagione disastrosa, fatta di veti, ricorsi, congressi impraticabili.

Il M5s, da par suo, attraversa una fase di profonda incertezza: Cancelleri, che il gruppo dirigente siciliano a parole sostiene, non risulta il profilo più gradito per una eventuale scalata a palazzo d’Orleans. Filo-contiano, il sottosegretario ha già perso nel 2012 e nel 2017. La provocazione lanciate a novembre dell’anno scorso, e in parte rientrata, di volerci riprovare ancora, suscitò la reazione (compostissima) di Luigi Sunseri, uno dei parlamentari regionali più in vista del ‘vecchio’ Movimento, quello della lotta continua e di “sconti per nessuno”: “Io non so cosa accadrà alle prossime elezioni regionali, ma sono certo che Cancelleri stia svolgendo un importante lavoro a Roma e il gruppo regionale abbia sviluppato capacità e competenze tali da mettere in campo il meglio per la nostra Regione”.

Il panorama pentastellato, nel frattempo, è stato stravolto dall’uscita di scena di Davide Casaleggio, dall’intuizione di promuovere capo politico l’ex premier Conte, dalla pretesa di Grillo di riaffermare la sua autorità, da uno Statuto ancora da scrivere, da una piattaforma tutta da reinventare (dopo l’addio a Rousseau). Dai governi cocktail a livello nazionale: prima con la Lega, poi col Pd, infine col centrodestra (ad eccezione della Meloni). E, nell’Isola, da una parziale apertura verso i moderati di Forza Italia, che a molti dei deputati regionali è rimasta sull’esofago. Il modello Draghi, che i grillini siciliani non hanno accolto per il meglio – invitando i colleghi ‘romani’ a non votare la fiducia – è una proiezione inaccettabile in Sicilia, dove il M5s, stando all’ultimo sondaggio di Keix per ‘La Sicilia’, rimane il primo partito con oltre il 22%. Quel 22%, da solo, non è garanzia di successo. Ma diventa garanzia di insuccesso se non verrà contestualizzato in un’alleanza di solidi principi e di accettabili compromessi.

Ecco il tema: l’alleanza. Cancelleri e Barbagallo continuano a spiegare che prima vengono i compagni di viaggio. Ma sia il Pd che il M5s, in questa ricerca di approvazione verso l’esterno, rischiano di proiettare all’interno della coalizione, di cui fa parte anche Fava (con numeri in crescita, fra l’altro) una pericolosa instabilità. Quanto ci vorrà, insomma, per proporre un candidato? Che non è “soltanto” un candidato, ma l’alternativa a Musumeci? E a cinque anni che le opposizioni hanno già etichettato come un fallimento?

Il deputato dei Cento Passi, in una recente dichiarazione sui social, ha riproposto la questione: “‘Non è ancora il tempo’ è il viatico per ogni sconfitta, l’idea di far melina a centrocampo nascondendo la palla, convinti che gli avversari restino a guardare allocchiti. Poi, quando ricominceremo a giocare, quelli ci avranno rifilato già dieci gol. ‘Non è il tempo’ – prosegue il presidente della commissione Antimafia – è un modo elegante per prendere tempo. Invece il tempo è adesso. Per proporre ai siciliani tutti, non solo ai partiti del mitico perimetro, un’idea utile e percorribile di Sicilia, la partecipazione ad una sfida, il segno concreto di un cambiamento che archivi questa stagione cupa, logora, di presidenti travestiti da podestà, maggioranze ridotte a piccoli eserciti di obbedienti “yes man”, riforme bloccate per non turbare animi e interessi, parole lasciate correre nel vento senza mai lasciare che si posino per terra”. “Il tempo è questo – ha ripreso Fava -. Altrimenti non mi sarei fatto avanti. Se poi il punto non è il tempo per la scelta ma non aver il coraggio (o gli argomenti) per dire che non si gradisce la scelta che è già in campo, ovvero il sottoscritto, sarebbe più onesto dirlo. Purché poi si sappia spiegare perché (altro, “pericoloso”, punto di contatto col discorso di Musumeci allo Spasimo ndr). Altrimenti non è più melina: è solo un bluff. Che ad inseguire, adesso, sia la destra”.

Visioni diverse rispetto al Pd e ai Cinque Stelle. Che rischiano – potenzialmente – di riflettersi sul modello Termini Imerese, quello più agevole da cavalcare. Quello che riesce a mettere d’accordo, di fronte a uno Spritz, i tre “capi” della sinistra; quello che permette a Maria Terranova di diventare sindaca; quello che rappresenta (tuttora) una spina nel fianco per Musumeci anche all’Ars. Una rappresentazione bucolica di ciò che il “campo largo” vorrebbe diventare. Siamo lontani, in verità. Lo squadrone del centrosinistra, in teoria, potrebbe utilizzare un sondaggio recente per organizzare una conta, strutturare un’intesa su pochi punti, aggregare in chiave antagonista (al governo Musumeci) e, magari, organizzare le primarie: considerando i voti di Italia Viva e Azione – due variabili impazzite – la coalizione raggiunge il 52,5%, contro il 47,5% del centrodestra. Tutto relativo, ovviamente. I renziani, ad esempio, sono in cerca di una collocazione strategica e lavorano assieme ad alcuni partiti ‘governativi’ fra cui l’Udc e il Cantiere Popolare, a un unico contenitore di centro.

Forse è giusto definire il perimetro, ma il modo più rapido e indolore per farlo sarebbe buttarsi a capofitto su una figura – il dem Peppe Provenzano? – per ottenere quella scrematura che altrimenti richiederebbe mesi. Ma è vero pure che imporre un padre surrogato a una coalizione di per sé molto ambigua, rischierebbe di buttare via la semina laboriosa (e sotto traccia) di questi mesi, di far perdere pezzi per strada. I Cinque Stelle, in primis, hanno bisogno di riconoscere la propria stoffa. Di sapere chi comanda fra Conte e Grillo, chi ambisce al ruolo (col nuovo Statuto) di coordinatore regionale, come si preparano le nuove liste in attesa di Rousseau. Deve reinventarsi un modo di stare in politica, e deve farlo senza che gli elettori, tuttora i più numerosi, si sentano traditi. In attesa di tutto questo, lo squadrone rimane senza padrone. Dando tempo a Musumeci – che, numeri alla mano, partirebbe comunque da favorito – di riorganizzare le truppe.