Antonio Candela non è più il commissario dell’emergenza Covid in Sicilia, e dal 2018, nemmeno il manager dell’Asp 6 di Palermo. Fabio Damiani, ieri, s’è scucito i galloni di direttore generale dell’Asp di Trapani, e prima aveva dovuto rinunciare alla guida della Centrale unica di committenza della Regione. Ma anche Rosario Crocetta, dal 2017, ha abbandonato la scena politica, dopo aver fatto per cinque anni il governatore; così come il “senatore della porta accanto”, Giuseppe Lumia, il consigliere “ombra” (nemmeno tanto) di Crocetta, non più ricandidato dal Partito Democratico. E che dire di Antonello Montante? L’ex leader di Sicindustria è quello messo peggio, avendo subito una condanna in primo grado a 14 anni per corruzione e associazione a delinquere. Questo è il quadro di una certa antimafia, che negli ultimi tempi è stramazzata nella polvere. Le vicende che si sono abbattute sui “gestori”, “pilotatori”, e in un certo senso “sabotatori” della sanità siciliana, sono la pennellata finale di un affresco sbiadito: il cerchio magico dell’ex presidente Crocetta, artefice e vittima di un processo fallito di moralizzazione, condito da un’azione politica superba e inefficace, oggi esiste soprattutto sulle pagine dei giornali e negli incartamenti dei magistrati.

Quel mondo è franato. E’ rimasto vittima dei suoi errori e dei suoi encomi, come quello pronunciato nel 2014 da Crocetta nei confronti di Candela che, nei panni di direttore amministrativo dell’Asp di Palermo, denunciò le anomalie di una gara d’appalto sulla fornitura dei pannoloni: “E’ fervido auspicio che il suo metodo di gestione ispirato ai valori di massima legalità, diventi il modello condiviso in ogni settore dell’amministrazione regionale”, disse il presidente della Regione all’indomani delle minacce ricevute da Candela e dell’assegnazione delle scorta. La scorta, intesa come patente di moralità, diventata una sorta di status symbol, si è rivelata un boomerang: non solo per il manager dell’Asp, l’eroe anti tangente finito ai domiciliari per corruzione. Ma, in senso lato, per tutto l’apparato crocettiano, che volle costruire nuove modalità di intendere la politica, senza però fissarne le fondamenta.

Per questo è venuto giù tutto. Le apparenze non hanno retto. La storia di Crocetta al governo – di cui era stato precursore Raffaele Lombardo con la nomina del magistrato Massimo Russo alla Sanità – è piena di icone e vuota di contenuti. Laddove i contenuti avrebbero voluto (e potuto) affermarsi, è arrivato un colpo di cesoia. La prima nomina di Crocetta fu quella di Lucia Borsellino, figlia di Paolo, anch’ella assessore alla Salute. Come andò alla Borsellino? Si dimise. Pochi giorni prima di aver appreso dall’Espresso di una conversazione fra Crocetta e il suo medico, Matteo Tutino (quello del famoso sbiancamento anale), in cui quest’ultimo – riferendosi all’assessore – avrebbe detto che “va fatta fuori come il padre”. Crocetta, che nell’intercettazione non ebbe da ridire, si autosospese dal suo incarico. Ma il danno era fatto e l’immagine fortemente compromessa.

Meno di un anno prima, è il 2014, un altro illustre componente del primo governo Crocetta, il magistrato Nicolò Marino, piazzato “opportunamente” all’assessorato all’Energia e ai Rifiuti, decide di fare un passo indietro. Si rende conto, Marino, che è impossibile regolamentare il sistema siciliano dei rifiuti, perché Giuseppe “Catanzaro (gestore della discarica di Siculiana) è la punta dell’iceberg che cercava di impedire, sotto il profilo giuridico, che la Regione si dotasse di strumenti normativi che le consentissero di fare piattaforme pubbliche”. L’ex presidente di Confindustria non agiva da solo: al suo fianco c’erano Antonello Montante, suo predecessore, e Beppe Lumia, il senatore del Pd che fungeva da sponsor, già presidente della commissione parlamentare Antimafia. “Crocetta è condizionato dall’ingerenza di esponenti di Confindustria che continuano a garantirsi delle situazioni di vantaggio con il mero biglietto da visita dell’antimafia, privo di sostanza, e con il placet di parti della maggioranza e del Pd – disse Marino in una intervista dell’epoca a ‘La Sicilia’ – Il sistema dei rifiuti in Sicilia è sempre nelle mani delle stesse persone”.

Marino è la conferma che era sbagliata la strategia, o forse gli uomini con cui applicarla. In generale, al di là dei soliti discorsetti legati all’antimafia, la gestione Crocetta ha rappresentato quanto di più cervellotico esiste dall’elezione diretta del presidente della Regione. In cinque anni il governatore è riuscito nell’impresa di creare quattro governi, far girare 59 assessori (l’ultima Aurora Notarianni, ai Beni culturali, per 52 giorni), collezionare mozioni di sfiducia e dividere i partiti dentro e fuori dalla sua coalizione. Un’altra delle sue fantastiche trovate fu riempire le caselle dell’esecutivo con nomi di grande spessore, ma non adatti – con il dovuto rispetto – ad assumere incarichi politici: lo scienziato Antonino Zichichi, restio a frequentare le riunioni di giunta, fece tutto e il contrario di tutto per farsi togliere i Beni culturali; il cantautore Franco Battiato fu estromesso dalla giunta (si occupava di Turismo, Sport e Spettacolo) dopo aver definito un “troiaio” il parlamento. Entrambi salutarono a marzo 2013, pochi mesi dopo l’investitura.

La pittoresca rappresentazione della politica del Crocetta governatore, è lo specchio fedele della sua conduzione della macchina amministrativa. Sfrontata, emozionale, ma per niente pragmatica. Uno dei primi atti, ad esempio, fu quello di far licenziare 21 giornalisti di palazzo d’Orleans, e in seguito a una condanna per diffamazione verso un paio di loro, i giudici gli hanno pignorato da poco il vitalizio. Fu lo stesso Saro a invadere nel 2013 l’arena di Massimo Giletti, profittando della sponda offerta del giornalista, e annunciare la cancellazione delle province, che in ventiquattr’ore divenne legge. Senza l’attuazione di una riforma vera (Crocetta rivendica – comunque – di essere stato il primo), gli enti d’area vasta sono stati lentamente dimenticati, erosi, svuotati dallo Stato, sbranati dalla furia populista che non ha mai individuato un modo – né il come né il quando – per farle diventare utili. E s’è limitata a tenerle a bagnomaria, grazie ai commissari che di volta in volta sono stati individuati dal governo (per la serie “un incarico val bene una messa”).

L’epopea di quella stagione è storia, e non ha alcun diritto di rivendicare l’oblio. Specie se, come appare, ancora oggi se ne raccolgono i cocci. Fabio Damiani, per dirne uno, è il prodotto di laboratorio della premiata ditta Crocetta-Lumia, che lo misero a capo della complessa Consip siciliana. L’approdo naturale delle gare d’appalto più consistenti, specie della sanità. Si legge che dalle mani di Damiani – che oltre a essere dirigente responsabile della Cuc, era spesso presidente della commissione e responsabile unico del procedimento – siano passate gare per nove miliardi. Ma non c’era alcun motivo per dubitare del suo operato. Lo svezzamento, infatti, si era concluso in maniera trionfale al Ciapi, il noto ente di formazione risucchiato nel “sistema Giachetto”, dove l’ormai ex direttore dell’Asp di Trapani sollevò scandali e denunciò sprechi, tanto da attirarsi le simpatie e gli apprezzamenti del cerchio magico del governatore. La fama di burocrate integerrimo seguiva anche Antonio Candela e i vari interpreti, a vario titolo, di una stagione (forse) irripetibile. A partire da Antonello Montante, che da paladino della legalità, pronto ad assumere la guida dell’agenzia dei beni confiscati, fu tirato in ballo dai giudici per le frequentazioni con il boss Vincenzo Arnone, e subito dopo – stando alla sentenza di primo grado pronunciata dal Gip di Caltanissetta – costruì una rete di spionaggio per monitorare le indagini a suo carico da parte dei magistrati.

Improvvisazione, macchiettismo, voglia di apparire e di strafare, di mostrare la parte migliore di sé senza possederla: nei cinque anni del governo Crocetta si sono sedimentati i peggiori vizi che – probabilmente – la politica nemmeno sapeva di possedere. L’antimafia degli affari, perché questo si è rivelata, di per sé non ha nulla in comune con l’antimafia. Né con la buona politica. E nemmeno con la politica. Ha macchiato l’immagine di una terra e consegnato ai tribunali abbastanza lavoro per anni. Ha preso il posto della mafia-generalmente-intesa, e ha prodotto un nuovo sistema di business, associato di volta in volta alla sanità, ai rifiuti, alla pubblica amministrazione. Ha idolatrato l’onestà e le buone maniere, e vissuto di soldi e di ingerenze. Sotto la pietra del Crocettismo non è rimasto altro che un verminaio.