“Nulla sarà più come prima”. L’ha detto l’assessore regionale all’Economia, Gaetano Armao, che un paio di giorni fa ha trasmesso la sua relazione sull’emergenza economica da Coronavirus all’Ars, e in modo particolare alla commissione Bilancio presieduta da Riccardo Savona. Dove nei prossimi giorni, dopo che la giunta avrà presentato la nuova bozza, si discuterà della “Finanziaria d’emergenza” che maggioranza e opposizione – assieme per una volta – dovranno allestire entro il 30 aprile, data di scadenza dell’esercizio provvisorio. E’ una corsa contro il tempo, ma a questo la Regione è abituata. Ciò a cui non è abituata è affrontare un evento come la pandemia con le solite armi spuntate. E se all’orizzonte – vista la sospensione del patto di stabilità a livello europeo e i cordoni della borsa un po’ allentati da parte dello Stato – sarebbe lecito pensare a un aiutino dall’esterno, in realtà si scopre che non è per niente facile. E che ancora una volta la Regione dovrà rispondere della propria, atavica incapacità gestionale. Un film già visto di cui si conoscono a memoria le battute.

E’ vero che la Sicilia è stata frequentemente “scippata”, e che mai le sono state riconosciute precise prerogative statutarie. Ma è infruttuoso aggrapparsi a questo precedente per buttarla ogni volta in caciara. Veniamo da mesi di conflitto con Roma: un rapporto insanabile che aveva fatto registrare una svolta inaspettata quando, alla vigilia di Natale, il Consiglio dei Ministri presieduto da Giuseppe Conte aveva concesso alla Regione di dilazionare in dieci anni (anziché in tre) i due miliardi di disavanzo maturati da Palermo nell’ultimo quarto di secolo, ed evidenziati in modo durissimo dalla Corte dei Conti. Ma è stata una pia illusione: il governo centrale chiese alla Sicilia, contestualmente allo sconticino che avrebbe permesso all’Ars di chiudere il Bilancio e tornare a spendere, un impegno forte su un pacchetto di riforme da attuare entro 90 giorni che, fra le altre cose, prevedeva: la riduzione della spesa corrente del 3% e una sforbiciata ai costi della burocrazia e delle partecipate. Quegli immensi carrozzoni, molti dei quali in liquidazione da anni, che a ogni giro creano dannosi scompensi alle casse di palazzo d’Orleans. E’ proprio questo il riflesso più fecondo di una gestione scriteriata.

Ma dal 23 dicembre al 23 febbraio, cioè l’inizio dell’emergenza Covid-19, la Regione – oltre ad aver deliberato un taglio del 5% ai costi delle partecipate – non ha più mosso un dito. E si è intestardita, giustamente (va da sé), nel condurre un negoziato con il Ministero dell’Economia che avrebbe dovuto portare alla firma di un nuovo patto di finanza pubblica, per liberare risorse aggiuntive, in cambio di un minor apporto al prelievo forzoso dello Stato, e far valere in tutte le sedi l’attuazione dello Statuto. Si è battuta all’esterno, per portare avanti una battaglia sacrosanta, ma non ha guardato sui propri scaffali, alla ricerca dei vecchi pezzi d’antiquariato, ormai inutili, che sarebbe stato meglio gettare nel cassonetto dei rifiuti.

Oggi, in tempi di crisi, le partecipate tornano di moda. Ed è quasi un trauma. Prendete Riscossione Sicilia. Da anni si dibatte se sia il caso, o meno, di accorpare le sue funzioni a quelle dell’Ader (l’agenzia di riscossione nazionale) e far confluire lì il personale. Ma non s’è mai deciso nulla. In estate è stata scongiurata la sua liquidazione, ma in una “congiuntura di guerra” (Musumeci dixit) come quella attuale, si scopre che il mancato pagamento di imposte e tributi, e dei relativi oneri, costringe la società alla cannula del gas: non può più pagare gli stipendi ai propri funzionari e rischia di andare in fallimento. E solo la Regione può salvarla. Prendete il Cas, il Consorzio Autostrade siciliano. E’ l’ente a cui è stata affidata la gestione di alcune arterie autostradali, come la Palermo-Messina e la Messina-Catania: l’abolizione dei costi del pedaggio per alcune categorie come gli autotrasportatori, comunicata qualche giorno fa dal governo regionale, fa venir meno un’enorme fetta degli introiti, considerato il fatto che circolano meno auto.

Ma anche le varie Ircac e Crias, che si occupano di credito agevolato alle imprese, si stanno rivelando autentici carrozzoni. Una riforma avviata nel 2018, che prevedeva la loro fusione nell’Irca, non si è mai concretizzata del tutto. E c’è di più: la moratoria dei mutui e dei prestiti a tasso agevolato, anche questa decisa dall’assessorato regionale all’Economia, ha significato la chiusura dei rubinetti. E la conseguenza più naturale: non si possono pagare i dipendenti. Anche i teatri, rimasti privi di una fonte primaria di guadagno (lo sbigliettamento) stanno battendo cassa a palazzo d’Orleans, che già di suo vedrà precipitare le entrate a causa delle numerose “concessioni” elargite ai siciliani in virtù degli effetti del Covid: in termini di Irpef, Iva, bollo auto, concessioni di canoni e locazioni. Un bagno di sangue. Le entrate fiscali, che sarebbero dovute diventare lo strumento più efficace per riequilibrare i bilanci peccaminosi degli ultimi tempi, si trasformano nell’anello mancante che non consentirà alla Regione di chiudere il cerchio e costringerà l’assessore Armao a fare altre richieste caritatevoli allo Stato e, magari, all’Europa.

Al di là della pratica, quanto mai attuale, esiste anche la teoria. Un punto su cui questo giornale insiste da tempo. Che va al di là del milioncino speso qua e lì inutilmente. Riguarda le buone prassi. Non è normale, non è logico che la Regione – ridotta com’è sul lastrico – continui a ritenere volano di sviluppo il turismo termale o quello ciclistico, per dirne due. E a investire, rispettivamente, 9 milioni di euro per l’acquisizione al patrimonio della Regione delle Terme di Acireale, o 11 milioni per far passare il Giro d’Italia e di Sicilia dalle strade mal ridotte. Ripetiamo: non è una questione di soldi, ma di principio. Che denota l’inconsistenza di un percorso amministrativo e politico in rotta di collisione con la realtà. Le Terme di Acireale, che arrivano dopo quelle di Sciacca, rientrano nel progetto strategico del governo Musumeci perché “ci consentirà di diversificare e destagionalizzare l’offerta turistica, con evidenti benefici per l’economia dell’Isola. Dopo anni di squallore, gli impianti in Sicilia potranno, quindi, tornare a essere un punto di forza e un motivo di attrazione”.

Ma non dovrebbero rappresentare il tutto, bensì una parte di un quadro economico rivoluzionario che alla Sicilia servirebbe come il pane. I bilanci non si costruiscono più con le pezze. Tra le politiche rivedibili, arcinote alla maggioranza dei siciliani, compaiono i soliti investimenti su Ambelia, la stazione equina che ospiterà (ma adesso salta) la seconda edizione delle Fiera internazionale del Cavallo e la Coppa d’Assi, il feudo rivalutato del presidente Musumeci per dieci milioni; la rivalutazione dei tre borghi rurali di epoca fascista, dove vivono a stento una settantina di persone, per 14 milioni; la vestizione degli uscieri di palazzo d’Orleans che la trasmissione di Giletti ha reso celebre (un milione). Voci rinvenute qua e là che sarebbero senz’altro accettabili all’interno di un quadro diverso, di una Regione con le spalle larghe, e robusta di salute.

Ma la Sicilia non lo è. E ancora oggi, con l’emergenza sanitaria ed economica in corso, Armao, come riferito da Antonio Fraschilla su Repubblica, si ritroverà a elemosinare 1 miliardo e 400 milioni di sconti al governo di Roma: chiederà di non versare per quest’anno il contributo di finanza pubblica (pari a un miliardo) e di sospendere la rata dei mutui con la Cassa Depositi e Prestiti (per 400 milioni). Il disallineamento attuale – anno 2020 – fra entrate e uscite è di 600 milioni e potrebbe aggravarsi ancora alla luce del virus. Il Pil potrebbe subire una contrazione di sette punti percentuali. Per dirla con l’assessore all’Economia, “nulla sarà più come prima”. Sarà anche peggio.