Ha fatto mille interviste per dire una cosa sola: con Italia Viva è finita. Il leader di Azione, Carlo Calenda, si è congedato dall’acerrimo “rivale” Matteo Renzi spiegando che il giochino dello #staisereno, questa volta, non ha funzionato: “Semplicemente hai provato a darci una fregatura e sei stato rispedito al mittente”, è il contenuto di un tweet che, nella giornata di ieri, ha assunto sfumature sicule. “Totalmente d’accordo”, ha commentato l’ex vicepresidente della Regione, Gaetano Armao, che all’indomani della sconfitta elettorale si era defilato dalla politica, dedicandosi all’insegnamento e all’avvocatura. Anche se il desiderio di tornare sulla scena – organizzando convegni e disquisendo di insularità – forse non gli è mai passato.

Gliel’ha lasciato credere anche Renato Schifani, che dopo non aver condiviso – e ci mancherebbe pure – la sua candidatura a governatore con la maglietta del Terzo Polo e l’addio a Forza Italia, l’ha sempre tenuto in considerazione. A tempo debito, chissà, anche per un incarico di sottogoverno. Di recente, durante un convegno sulle Attività produttive organizzato dall’assessore Tamajo a Palermo, il presidente si è persino sbottonato: “Io non avrei nulla in contrario a un dialogo con l’ala moderata del Terzo polo – ha detto Schifani -. Il mio governo si muove nella logica dei dati elettorali. Nel momento in cui ci sarà all’Ars una espressione del Terzo Polo, la guarderò con tanto interesse”.

Il Terzo Polo, di fatto, non esiste più. Anche se qualche ammiccamento ai salotti buoni della politica, nei mesi scorsi, c’è stato. Ma è in Sicilia, ancor prima che in Lombardia o in Friuli, che Azione e Italia Viva hanno dimostrato di essere un po’ burrosi. Con Armao al timone e una campagna elettorale “organizzata in appena 40 giorni”, i terzopolisti non sono andati oltre il 2,1%, restando abbondantemente sotto la soglia di sbarramento (e non conquistando seggi a Sala d’Ercole). E’ andata meglio alle Politiche, dove proprio Calenda ha sfruttato l’autobus della Sicilia per essere eletto. Ma che nei territori il (bis)partito avesse bisogno di germogliare – e non c’è stato abbastanza tempo per farlo – lo dimostrano i dati incontrovertibili di Lombardia e Friuli Venezia Giulia.

Letizia Moratti, una personalità di spessore che oggi traccheggia col movimento di Cateno De Luca, si è fermata sotto il 10%, spinta più che altro dalla propria lista. Azione e Italia Viva, in Lombardia, sono crollati al 4,2. E’ andata addirittura peggio alle ultime Regionali friulane, che hanno visto la netta affermazione del leghista 2.0 Massimiliano Fedriga. In quel caso Calenda e Renzi, già in rotta di collisione, hanno messo assieme un umiliante 2,7% con Maran. Circa diecimila preferenze. Finendo doppiati dai No Vax. Basta questa indicazione per capire che aria tirasse. Eppure, nel mondo incantato di Schifani, c’è la disponibilità a rivedere in corsa gli equilibri della maggioranza semmai qualche transfugo – che all’Ars si trova sempre, questione di mesi – dovesse scegliere di cambiare sponda e appropriarsi di qualche nuovo simbolo.

Azione nell’Isola non ha mai attecchito. Si è resa protagonista di un grande risultato solo alle Amministrative di Palermo, quando spinta da Fabrizio Ferrandelli ha sfondato il muro dell’11%, eleggendo quattro consiglieri comunali (che a differenza dei colleghi di “Italia Viva-Patto per Palermo” sono all’opposizione del sindaco Lagalla). Per il resto è calma piatta e lo stesso Armao, consolidato il proprio prestigio (Calenda lo ha nominato responsabile del Dipartimento nazionale Politiche mediterranee), non ha dato un gran contributo per farla crescere. Peraltro la sua candidatura è stata accolta con naturale freddezza da Italia Viva, ch’era reduce da qualche anno di opposizione – anche dura – al governo Musumeci. Trovarsi il suo vice come candidato a Palazzo d’Orleans, per usare un eufemismo, non ha scaldato gli animi dei renziani. Tanto da ridurre la campagna elettorale a poche apparizioni pubbliche.

Probabilmente, da oggi, quell’imbarazzo verrà meno. Non ci sarà più bisogno di accostare Armao a Faraone, o Calenda a Renzi, perché la “lite fra comari” (come l’ha definita Alessandro De Angelis sull’Huffington Post) ha polverizzato il progetto di un partito unico, o di uno schieramento che fosse in grado di porsi fuori dai due poli. Un’operazione ancora più rischiosa – se non improponibile – per la Sicilia, dove l’area centrista è presidiata da Forza Italia, e dai soliti noti: Lombardo e Cuffaro. Quest’ultimo a Calenda è sempre stato sugli zebedei, a dirla tutta. Non è il solo. “Renzi mi ha dato del pazzo? Non rispondo alle volgarità – ha ribattuto Calenda – Diciamo che ha provato a fare una delle gabole per cui è famoso. Uno #staisereno che questa volta gli è andato male”. “Renzi – ha aggiunto – è una persona di grande valore e intelligenza” ma “non ha mai partecipato a un comitato della federazione. Mi è parso più concentrato sul tentativo di nominare Maria Elena Boschi presidente della Vigilanza e Ernesto Carbone al Csm”.

Il motivo per cui è saltato tutto? “Quando siamo andati alle elezioni – argomenta Calenda ad Huffington Post – abbiamo promesso agli elettori la nascita di un partito unico dei liberal-democratici. Dal minuto dopo Renzi ha provato a far slittare questo impegno a dopo le Europee. Quando gli abbiamo detto che non era accettabile ha iniziato a fare melina e disertare le riunioni. Abbiamo fatto una proposta scritta a cui Renzi ha risposto scrivendo che non era disponibile a sciogliere Italia Viva insieme ad Azione e a finanziare con il 2×1000 il nuovo partito. Sarei dovuto diventare il segretario di una scatola vuota dipendente dagli umori e dai desideri di Renzi”. Game over. A Roma e nel resto d’Italia. In Sicilia, al netto delle speranze di Schifani, quasi tutti se n’erano già fatti una ragione.