L’impuntatura di Nello Musumeci ha avuto l’effetto di una bomba a grappolo: piccoli frammenti che si staccano dall’ordigno principale e distruggono tutto ciò con cui entrano a contatto. La terminologia di guerra, meglio di qualunque altra, rende l’idea di ciò che è accaduto in queste settimane nel centrodestra. Una coalizione in pena per le angherie (amministrative) di Leoluca Orlando, ma non in grado di anteporre gli interessi di Palermo agli interessi di partito. Al contrario. La quinta città d’Italia è divenuta “merce di scambio”, per citare Gianfranco Miccichè, e ha finito per legare il proprio destino al giudizio (negativo) sull’operato di Musumeci alla Regione.

Dopo l’ultimo, (in)deciso e decisivo appoggio di Fratelli d’Italia alla candidatura di Roberto Lagalla, il centrodestra s’è schiantato. Lagalla. Non uno qualunque, ma un ex assessore regionale, per cui lo stesso Musumeci ha fatto (sommessamente) il tifo dal giorno in cui si dimise dalla giunta. Fratelli d’Italia e il governatore, però, hanno deciso di sostenerlo soltanto dopo aver capito che da parte degli alleati storici, Lega e Forza Italia, non c’era alcuna urgenza di trattare la due questioni – Comune e Regione – nella stessa sede. E nessun piacere a perorare la causa del bis: un quinquennio basta e avanza. Lagalla è stato un atto di ripicca dopo aver sondato l’idea di sostenere Carolina Varchi, prima vittima sacrificale di questo disegnino. L’unica, forse, a meritare una possibilità reale in un partito, Fratelli d’Italia, la cui posizione è incomprensibile agli occhi di Micciché: “Non riesco a capacitarmi di quello che sta succedendo – ha detto il coordinatore regionale di Forza Italia -. Non era mai successo che in Sicilia non ci ritrovassimo… Stavolta invece FdI ha deciso di intervenire con una cosa surreale prendendosi carico di un presidente della Regione uscente Musumeci che prima non era FdI, lo è diventato da un mese”.  Lo è diventato perché in quel modo sarebbe stato più facile ottenere la ricandidatura. Più o meno come Lagalla, passato all’Udc per provare a diventare sindaco.

Un partito non si nega a nessuno. Anche se la dirigenza di Fratelli d’Italia, di fronte all’impuntatura di Musumeci e al red carpet che gli ha steso di fronte la Meloni (fino a ieri, nel giorno della conferenza programmatica di FdI a Milano), non l’ha presa benissimo. Memore di un passato in cui il governatore, con parecchio disprezzo, aveva bocciato la proposta del suo vecchio amico Raffaele Stancanelli di fare una federazione con Diventerà Bellissima, etichettando quello della Meloni come “un partitino del 2-3%”. Ma anche consapevole del fatto che l’ingresso in scena di Musumeci & friends, avrebbe comportato parecchie restrizioni nelle liste – a Palermo, alle Regionali, ma soprattutto alle Politiche – nel momento di massimo splendore, dato che Fratelli d’Italia, anche nell’Isola, è accreditato di sondaggi più che favorevoli (prossimi al 15%). Il malumore, fin qui celato, si è in parte manifestato dopo la decisione di Meloni e La Russa di convergere sul centrista Lagalla (appoggiato persino dai renziani). Il primo a staccarsi è stato Stefano Santoro, ex presidente della Foss, che ha virato dritto su Ciccio Cascio: “La candidatura di Roberto Lagalla – ha spiegato l’aspirante consigliere comunale – non è in linea con il mio pensiero e la mia formazione politica e con quella di molti militanti e simpatizzanti di Fratelli d’Italia”. Se n’è andato, e non è detto che sia l’ultimo.

Fra i ‘critici’ della prima ora c’è lo stesso Raffaele Stancanelli, che prima di un prolungato silenzio, e pur restando a disposizione del partito, non ha fatto mistero di avere qualche dubbio sull’affidabilità di Musumeci. D’altronde in Fratelli d’Italia c’è una classe dirigente di secondo rango, rappresentata dal “cavaliere del suca”, al secolo Manlio Messina, che sembra aver soppiantato quella più autorevole e culturalmente attrezzata. Di cui fa parte la stessa Carolina Varchi: prima richiamata nell’agone, e spedita in giro nei mercati comunali in cerca di voti; poi costretta a ritirarsi, in nome di un intrallazzo: lasciare Musumeci sul trono di Orleans. Con questo piano ben congegnato, Giorgia aspira a diventare il primo partito. Forse non le basterà, nonostante i sondaggioni propinati a mezzo stampa, a diventare forza di governo. Almeno in Sicilia.

Ma è sull’asse Meloni-Dell’Utri, favorevole al bis di Musumeci, che è scoppiata pure Forza Italia. Gianfranco Micciché è riuscito a conservare la leadership, portando a casa la candidatura di Ciccio Cascio a Palermo. Ma la minoranza azzurra resta rumorosissima, e si appiglia all’ex senatore palermitano, ancora in ottimi rapporti con Berlusconi, che funge da scudo e suggeritore. Di questa compagine fanno parte la troupe assessoriale composta da Gaetano Armao, Marco Falcone e Marco Zambuto; il presidente della commissione Bilancio, Riccardo Savona; i pari ruolo delle commissioni Salute e Affari istituzionali, Margherita La Rocca Ruvolo e Stefano Pellegrino; e alcuni deputati di peso dell’Agrigentino, come Riccardo Gallo (fedelissimo di Dell’Utri), e del Catanese, come Alfio Papale. Un bel drappello che rappresenta una spina nel fianco di Micciché e che, al netto dell’impegno per Forza Italia e dentro Forza Italia (esibito da Marco Falcone), è ormai connesso al partito degli ultrà musumeciani.

Di cui fa parte, suo malgrado, anche Toto Cordaro. Ed è qui che si è materializzata la terza spaccatura. Quella più clamorosa che il suo amico di vecchia data, l’ex ministro Saverio Romano, ha dato in pasto ai social. Cordaro, eletto nella lista dei Popolari e Autonomisti, è stato espulso dal Cantiere Popolare-Noi con l’Italia dopo aver garantito il proprio sostegno a Lagalla: “E’ il candidato più autorevole e credibile”, ha detto l’assessore al Territorio e Ambiente. La risposta di Romano, in prima linea per Cascio, non s’è fatta attendere: “Conservo gelosamente 38 anni di vita vissuta in assoluta armonia ed amicizia sincera e fraterna” e “lascio solo a me l’amarezza ed il dolore per un rapporto che non è più come fu. Sul piano politico Toto ha scelto di fare da solo. Gli auguro di realizzare ciò che non sono/siamo riusciti a garantirgli con la nostra comunità politica in tutti questi anni ed allo stesso tempo mi auguro di non averne nocumento per me e per i tanti amici che nel tempo lo hanno sostenuto su mia richiesta. Non vedo e non sento Toto da due mesi, mi avrebbe fatto piacere averlo vicino in questo tempo difficile e per il futuro, ma tant’è. Quando avrò l’occasione di vederlo, gli darò un abbraccio e lo ringrazierò per averlo avuto accanto in tutti questi anni. Adesso ho il dovere di girare pagina e sostenere coloro che meritano ancora la mia gratitudine e la mia amicizia”.

L’ultima spaccatura Musumeci ha rischiato di crearla all’interno della Lega, nuova dimora di Luca Sammartino (suo rivale storico). A Palermo il Carroccio ha deciso di puntare le proprie fiche su Cascio e sul ticket con Forza Italia, evitando di impantanarsi nell’ipoteca di un bis a fari spenti. Mentre non è ancora uscito dall’imbarazzo, anzi c’è dentro fino al collo, l’Udc di Lorenzo Cesa. Il segretario centrista, in privato, non ha mai ritenuto all’ordine del giorno la ricandidatura del presidente della Regione. Ma ora chi glielo dice a Nello dopo l’endorsement a Lagalla? Il risultato di questo marasma è che anche la giunta di governo è più spaccata che mai: da un lato il leghista Samonà, l’autonomista Scavone e il miccicheiano Scilla; dall’altro, il resto della compagnia. Tra una picconata e l’altra, magari, Musumeci troverà spazio anche per un rimpasto.