Quando si andava all’opera a vedere «Cavalleria rusticana», durante la scena della processione di Pasqua, mia nonna si faceva il segno della Croce. Inneggiamo al Signore risorto, intonava il Coro: ma siccome avevo consapevolezza fin da bambino che quella era una finzione e non una funzione, il devoto segnarsi mi sembrava dunque sconveniente, in quel palco laterale di terza fila. Ma così era, ad ogni «Cavalleria». Lei era credente, praticante, non bigotta ché ad arginare tutto, alla fine, era una pragmatica way of life da navigata commerciante. Più che il luogo era dunque l’occasione, il motivo del mio imbarazzo, del mio giovane turbamento.

Anche per Barbara D’Urso, domenica sera, più che il luogo – lo scintillante studio di Cologno Monzese, sebbene orfano «del mio pubblico» come lo chiama lei –, più che l’abito – un corto di paillettes che riverberava una luce bluastra in verità quasi da apparizione mistica – fu per l’appunto l’occasione ad essere poco propizia per recitare il Requeim aeternam per le migliaia di morti di Coronavirus. Perché (come abbiamo anche scritto qui) non si fa, in un programma di infotainment, anche se tu ti professi credente, non si fa in combutta o comunque in coppia con il segretario del partito d’opposizione, la Lega, Matteo Salvini che ti insuffla quella balzana idea. Che bisogno c’era? C’era stato il Papa, tre sere prima, in una presenza di siderale doglianza, nel vuoto cosmico di piazza San Pietro gremita solo dell’anima del mondo, a insegnarci come si condivide il pianto.

Che per la D’Urso si scatenasse l’ira di Dio, quella metaforica s’intende, era messo nel conto. E nel turbine censorio s’è manifestata da qualche giorno la petizione on line intitolata “Cancellare il programma della D’Urso” (sul sito change.org) che sta avendo gran successo tanto da sfiorare in queste ore le 400 mila firme. Pensate, centomila ancora e si potrebbe indire un referendum. Ora, che la D’Urso abbia sbagliato non ci piove (la D’Urso «è sbagliata» in ogni cosa che fa, secondo una delle sue più seguite e acute detrattrici, Selvaggia Lucarelli) e noi non approviamo una sola parola, un solo gesto, una sola faccina di quelle che dispensa Barbarella nel suo trash quotidiano. Ma non firmeremo mai un appello per chiudere i suoi programmi. C’è la libertà del telecomando, c’è la libertà di critica e di indignazione, c’è la libertà del “vaffa” di cui si nutrì un movimento ieri di lotta e oggi di governo. C’è, proprio a volerla cercare e trovare, quella che si chiama «linea editoriale» per cui finché all’editore di Canale 5 questa Carmelita-Barbarella prefica su tacco 14 va bene… alla fine è lei che deve «dare la pubblicità». Certo, bisogna saper discernere: una cosa è darla dopo un giro di Grandi Fratelli Vip, un’altra dopo una decina di Rosario.