La notizia è di quelle che alimentano la fiducia di iscritti ed elettori, rinsaldano il loro rapporto con il partito e confermano il cammino inarrestabile verso la vittoria. In tre mesi, da quando Enrico Letta è arrivato alla guida del Partito democratico, sono nate tre nuove correnti, portando ad undici il numero complessivo.

Chi temeva che, stando alcuni anni a Parigi, Letta avesse dimenticato la storia e la vocazione dei democratici o volesse tentare di ridurli ad unità, di deviare il loro tragitto purviscolare, è stato chiaramente smentito. Il Partito democratico è vivo, mantiene i propri tratti identitari, respinge qualsiasi prospettiva di stringersi attorno al leader di turno, resta plurale, anzi lo diventa sempre di più, moltiplicando le proprie componenti. La strategia sembra suggerita da Klausewitz: spargersi nel territorio e controllarlo, anche in pochi occupare diverse postazioni per accerchiare gli avversari e farli prigionieri.

Undici correnti non sono, poi, tante, che, con una divisione equa dei voti che i sondaggi accreditano al partito, a ciascuna di esse tocca una percentuale vicina a quello di Renzi. I nuovi raggruppamenti sono guidati da Bettini, Micheli e da tali Furfaro e Oddati. Il primo si è scocciato di fare da suggeritore e ora vuole giocare in proprio. Micheli viene considerata da sempre vicina a Letta e la sua scelta induce a chiedersi se si organizza in proprio o per conto del nuovo segretario che intanto si fa una casetta. Furfaro è stato portavoce di Zingaretti e Oddati coordinatore nazionale della sua segreteria. Zingaretti, come è noto, aveva clamorosamente lasciato la guida del Pd, denunziando che lì “si parla solo di poltrone mi vergogno”. Ha ripreso colore, ha smesso di vergognarsi, ha ripensato alla funzione delle correnti e, non essendo riuscito né ad abolirle né a controllarle, se ne fa una tutta sua.

Non si hanno ancora notizie di ricadute dei nuovi raggruppamenti in Sicilia, dove, con i voti che ha quel partito, la conta interna sarebbe più ardua della separazione dell’atomo. Non è da escludere che la corrente degli uomini di Zingaretti possa avere come punto di riferimento alcuni ex diessini. Di certo può contare sul sindaco di Petrosino, il sindaco pastore che provvide a pascolare il gregge quando il suo proprietario venne colpito dal covid. Bisognerà attendere cosa farà Provenzano, vice segretario nazionale, che in Sicilia ha avuto i natali ma non vi ha trovato ancora radicamento politico. Tutte cose che, da elettore del Partito democratico, assicuro chi mi legge, non mi fanno dormire la notte.

Una consolazione mi viene dall’esito del tour di Barbagallo e di Cancelleri in alcune città dell’Isola. Pur non sapendo cosa abbiano seminato e raccolto i due esponenti dei partiti che dovrebbero allearsi in vista delle prossime elezioni ed escludendo che l’abbiano fatto solo per i selfie o per qualche svagata citazione giornalistica, un risultato l’hanno conseguito: hanno litigato con Fava che, alcuni mesi fa si è candidato alla presidenza della Regione all’insaputa dei suoi possibili alleati e che ora si sente discriminato e denuncia che così non si costruisce quel “campo largo” che, a furia di invocarlo diventa sempre più stretto.

Se la destra si unifica a Roma con l’obiettivo di garantire a Salvini la leadership insidiata da Meloni e di portare al Quirinale Berlusconi, che, alla sola ipotesi, forse causa l’età, il mio illustre coetaneo è l’unico al quale non scappa da ridere, anche a Palermo inevitabilmente finirà allo stesso modo. Con tanti saluti alla scomposizione della destra e all’accordo tra la sinistra e i moderati.

Per concludere. Dopo tanti anni di esperienza, che sempre più penso quanto noiosi, seriosi, impettiti e forse anche autorevoli, erano i protagonisti di un tempo: Moro, Berlinguer, La Malfa, Malagodi, Almirante e tanti altri. A petto a
loro gli interpreti di oggi sono divertenti, leggeri e spassosi: Berlusconi pronto a buttare nelle fauci di Salvini il suo partito per l’esilarante sogno della presidenza della Repubblica, Grillo che tra una gag e l’altra garantisce il Movimento cinque stelle, il capo della Lega che, recitando ogni sera tutte le poste del Rosario, si prepara a governare l’Italia con la mente e il cuore rivolti al Vangelo opportunamente depurato dei riferimenti ormai inattuali alla carità, alla fraternità e all’accoglienza. In questa realtà da commedia dell’arte o da teatro napoletano di quart’ordine, risultano fuori squadra Mattarella e Draghi che rischiano di appannare i tratti burleschi della politica italiana.