Il bagno di folla che ieri ha accompagnato, da Palazzo delle Aquile fino alla Cattedrale, la cittadinanza onoraria concessa all’ex questore Renato Cortese dal sindaco Lagalla non era solo la testimonianza di affetto di una città a una persona per bene, a un impeccabile uomo delle istituzioni, a un investigatore che ha raso al suolo i boss della mafia stragista, da Giovanni Brusca a Bernardo Provenzano. Era il segno che a Palermo – soprattutto a Palermo – è cambiato il comune sentire. Prima la città scendeva in piazza per applaudire giudici e magistrati, qualunque cosa facessero. Credeva di lavare così il sangue delle vittime abbattute dal piombo e dal tritolo mafioso. Col tempo ha scoperto che ci sono pure giudici e magistrati che si inventano accuse inesistenti, che montano processi mostruosi, senza prove e senza movente, che hanno il potere e il cinismo di rovinare chiunque, anche chi ha speso un’intera esistenza a combattere padrini e picciotti di Cosa Nostra. L’inferno nel quale hanno bruciato la vita e la carriera di Renato Cortese grida vendetta. Trascinato da un’inchiesta confusa e avventata in una trappola giudiziaria, l’ex questore di Palermo si è difeso con le mani e con i denti. Ha lasciato il prestigioso incarico che il Viminale gli aveva assegnato e ha atteso, da cittadino esemplare, che il Tribunale gli rendesse giustizia e gli restituisse la sua onorabilità. Ha dovuto aspettare la sentenza della Corte di Appello per ottenere finalmente un’assoluzione piena, netta, limpida, lampante, indiscutibile. Ora aspetta che il ministro degli Interni gli restituisca quello che la malsana giustizia all’italiana gli ha sottratto. Non c’è più tempo da perdere. Un ulteriore ritardo sarebbe un insopportabile e incivile supplemento di gogna.