Le chiamavamo «le signorine», erano le anziane convittrici dell’Istituto dei Ciechi, a Palermo. Senza vista, senza famiglia. L’età media era già alta, intorno ai 65 anni, le più giovani ciarliere, le più vecchie in un silenzioso, quasi severo disparte che a me, bambino, sembrava un corruccio, tra la vergogna e l’astio, verso la cattiva sorte e verso il resto del mondo, refrattario. Vivevano lì, negli anni Sessanta, qualcuno le aveva abbandonate, da piccolissime. Era raro che avessero, fuori da lì, tra i vedenti, qualche caritatevole parente, anche di grado largo, che le andasse a trovare o le portasse a casa propria per le feste. Ma lì d’altronde c’era tutto: tetto, letto, pasto, accudimento. E comunque si andava noi, a trovarle, durante quei lunghi periodi di vacanza – Natale o l’estate – in cui l’istituto si zittiva delle grida allegre degli altri convittori, i giovanissimi studenti fuori sede delle elementari e delle medie, degli alunni “esterni”, dei loro giochi e dei loro sport di precario orientamento ma di puntiglioso risultato, dei richiami amorevoli o aspri degli insegnanti, dei bidelli, del custode.

C’era una grande camerata a parte, per le «signorine», separata da quelle dove il vocìo chiassoso della giovane comunità collegiale dell’istituto, che anno dopo anno si spopolava però sempre più, regalava segni di una vita alla quale la cecità non aveva scippato l’irrequietezza degli anni. Poche, tra le «signorine», erano arrivate alla licenza media, pochissime erano riuscite a sfruttarla nel lavoro ai “centralini” che allora erano un approdo quasi naturale, per i ciechi, ambitissimo. Al di là delle nostre visite – con mia madre (cieca dopo la mia nascita, che insegnò lì, per trent’anni, materie letterarie alle medie e che era tra i pochissimi a ricordarsi di loro) portavamo dolciumi compatibili con età e patologie, piccoli regali di semplice vanità – il momento di grande festa per le «signorine» era il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, quando tutto l’istituto viveva di gioia collettiva – gioia religiosa e istituzionale per la Santa della Luce –, di vacanza scolastica, di concerti corali, di giochi, gare, sorteggi, cuccìa. Era il giorno in cui «le signorine» uscivano dal loro isolamento, l’occasione in cui si mischiavano con il resto della comunità pur sempre nella loro inscalfibile riservatezza, nella loro scorza di ritrosia.

Quest’anno, dopo moltissimi anni, sono tornato in Istituto per Santa Lucia. Non le ho più viste, «le signorine», non quelle di quand’ero bambino, ovviamente, altre magari che, anagraficamente, ne avessero preso il posto. Non credo ce ne siano più. C’erano invece ragazzi che pareva avessero una gran voglia di scavalcare il limite delle loro pupille più o meno spente, c’erano madri consapevoli che i figli non debbano più essere relegati ai margini, c’era la vecchia sala dei professori trasformata in laboratorio creativo, c’erano i cori che nel bellissimo auditorium intonavano sì i brani natalizi ma anche i Queen e, sottobanco, pure Anastasio. E la storia di quel confine e degli sforzi e dei sacrifici per superarlo – che pure non dev’essere dimenticata – era ripercorsa solo attraverso i vetri di un’esposizione museale. Per il resto, «le signorine» sono forse un ricordo. Oggi sembra avere nuovi occhi chi occhi non ha.