Forza Italia, a Roma come a Palermo, rischia di affondare per l’assenza prolungata del suo leader. Le ultime notizie di un Berlusconi “politicamente attivo” risalgono al 9 febbraio scorso. Si fermano a quel ‘gomito a gomito’ con Mario Draghi, dopo averlo rassicurato con la sua presenza a Roma, accolto da una folla di giornalisti che neanche il Papa, sulla formazione del ‘governo dei migliori’. Le prime ruggini, invece, emergono qualche settimana dopo: il Cav. non gradì per nulla di essere stato scavalcato nella scelta dei ministri di Forza Italia, una situazione che gli ha creato parecchi grattacapi: passi per la Gelmini, ma né Brunetta né la Carfagna furono farina del suo sacco, sebbene entrambi – come doveroso – lo ringrazieranno a nomina avvenuta.

La decisione di Draghi, assunta in totale autonomia, rappresenta il punto più alto del logorio di Forza Italia, un partito ridotto al 6% da chi Berlusconi vorrebbe sostituirlo, se non rottamarlo. A partire da Antonio Tajani, che ha riscattato la delusione per non aver inciso nella formazione del nuovo esecutivo, con la poltrona di coordinatore nazionale. Non la semplice spalla di Salvini (per cui stravede) e Meloni, ma il nuovo leader. L’organizzatore della vita di Forza Italia, colui che distribuisce le carte e sceglie i sottosegretari: ne ha nominati 6 su 6, senza lasciare spazio a nessun altro (dalla Sicilia, ad esempio, si è levata una voce di protesta per la mancata nomina di Matilde Siracusano, proposta dal gruppo all’Ars). Ha covato e allevato il suo cerchio magico, che lo spinge sempre più verso la Lega, verso il consolidamento dello schema classico del centrodestra. Che di classico non ha più nulla. Già dalle ultime Politiche, infatti, Forza Italia rappresenta l’anello debole della catena: perso il suo leader carismatico, sempre meno avvezzo alle tribune elettorali e alle presenze in pubblico, è stato eroso nel consenso. E parte del merito è proprio degli alleati: che si adattano meglio ai social, agli slogan, alla propaganda. Ai tempi, per dirla tutta.

Berlusconi conta, ma conta soprattutto la sua assenza. L’ex presidente del Consiglio ha lasciato un paio di giorni fa il San Raffaele di Milano dopo 24 giorni di ricovero. Se n’è tornato ad Arcore, dove il medico di fiducia, Alberto Zangrillo, ha fatto allestire una camera simile a quella d’ospedale e Silvio otterrà l’assistenza necessaria per superare i problemi di salute aggravati dalla positività al Covid dello scorso settembre. Inoltre, il Cav. dovrà sostenere l’ultima udienza del processo stralcio Ruby-Ter, in programma a Siena, dove avrebbe voluto rendere dichiarazioni spontanee (ma adesso?). Una questione che lo tiene occupato dal 2010. Insomma, può un uomo così, a 84 anni, sostenere il peso di un partito che non ingrana e di una battaglia di potere che da Roma, a macchia di leopardo, ha avuto la sua eco fino in Sicilia? Il nome di Berlusconi rimbomba di continuo nelle cronache dei giornali, che gli assegnano un compito – sulla carta – molto arduo: cercare di ricomporre il fronte di governo per arrivare, nella prossima primavera, a un’elezione condivisa del presidente della Repubblica. Una carica che lo stesso Berlusconi, quando era un allegro peperino, avrebbe desiderato per sé. Eppure, nel nuovo ruolo di statista e padre nobile, potrebbe condizionare la partita con la sua flotta di 140 parlamentari. Sempre che ne abbia modo e voglia.

Il punto è quanta voglia abbia Silvio di spendersi (ancora) in prima persona. O, al contrario, di delegare i suoi, che ormai lo seguono a fatica. Lo rispettano, questo sì, ma si esercitano a fare da soli. Ci hanno provato persino in Sicilia, proponendo a più riprese un commissariamento di Gianfranco Micciché. L’ultima proposta, recapitata al leader prima del ricovero in ospedale, era quello di istituire un triumvirato alla guida di FI con dentro gli ‘scontenti’ Renato Schifani (suo consigliere politico), Giuseppe Milazzo (europarlamentare) e Stefania Prestigiacomo (che però s’è subito sfilata). Ma ci avevano provato anche prima, convincendo Berlusconi a tentare un approccio più morbido: della serie, “Gianfranco, fatti da parte ma indica tu un sostituto”.  Proposta caduta nel vuoto: Micciché, che è sempre stato un uomo di Silvio ma disconosce il ruolo delle correnti, ha messo sul tavolo la propria forza elettorale, e l’esercito creato in Sicilia (coi 700 amministratori) con anni di duro lavoro (“Ho preso il partito nel 2016 che non aveva neppure un consigliere comunale”, va ripetendo). Ha resistito al tentativo dei falchi, col sostegno del gruppo parlamentare che fino a un paio di settimane fa – con alcune eccezioni – gli ha riconosciuto il ruolo di leader.

Ma finchè Berlusconi non prenderà posizione una volta per tutte, e finché non sarà chiaro chi comanda davvero, l’opera di logoramento della leadership siciliana andrà avanti. E il clima rischia di avvelenarsi in prossimità delle prossime elezioni, sia per le candidature che per la coalizione da proporre agli elettori. Non è un segreto che, per le Regionali, Micciché preferirebbe puntare su una nuova alleanza basata sul ‘modello Draghi’, e quindi aperta a tutte le forze moderate e riformiste, dal Pd alla Lega (senza disdegnare il M5s), e più in generale a chiunque voglia starci. In Sicilia si vince col voto dei centristi, con quel 20% che negli anni ha perso fiducia nella politica o, peggio, ha preferito avventurarsi sul campo minato dei populismi, rimandone prima folgorato e poi deluso. Anche negli altri schieramenti – lo ha ammesso per primo il segretario del Pd, Anthony Barbagallo – è chiaro che “senza i moderati non si vince”. A Micciché non dispiacerebbe mettere da parte la vecchia geografia, le vecchie alleanze stantie, e avventurarsi nell’ignoto, che però garantirebbe “un governo di pacificazione” capace di farsi ascoltare anche da Roma. “Oggi non comanda più l’ideologia, ma la logica e la concretezza”, ha detto il presidente dell’Ars a Buttanissima.

Eppure c’è chi, all’interno di Forza Italia Sicilia, non la vede allo stesso modo. A partire da alcuni assessori della giunta regionale, come Gaetano Armao e Marco Falcone, che in più di un’occasione hanno rimarcato i valori del “centrodestra unito” e individuato l’unica soluzione possibile per riprendersi palazzo d’Orleans: un Musumeci-bis. Entrambi sono formalmente iscritti al partito del presidente, e tangenti a quella Forza Italia cui dichiarano di appartenere. Falcone, fra l’altro, è la ‘spia’ del Cav., cui segnala i cattivi comportamenti e le interviste ardite di Micciché ogni qual volta se ne presenti l’occasione, ed è l’unico parlamentare, assieme al trapanese Stefano Pellegrino, a non aver sottoscritto il documento che rinnova la fiducia nei confronti del commissario regionale, ma anche dei quattro assessori di Forza Italia (lui compreso) e del presidente della Regione, durante l’ultimo summit della pace. Inoltre, è uno di quelli che ha posto apertamente il problema della leadership.

Tajani, e le prossime Politiche, rappresentano l’altra miccia. Qualcuno – ha segnalato Micciché settimane addietro – vorrebbe candidarsi in Sicilia perché altrove non ha chance. In effetti, alle prossime elezioni, il contingente di Forza Italia fra Camera e Senato (con la diminuzione del numero di parlamentari) potrebbe diventare asfittico. E l’Isola garantirebbe una rara oasi di ricchezza (alle ultime Europee FI ha preso il 17%). Da qui il tentativo di scalata di qualche esponente “nazionale”: si sono fatti i nomi del romano Gasparri, dell’emiliana Bernini, della lombarda Ronzulli. A questa provocazione, Micciché ha resistito. Garantito dall’amicizia e dalla stima di Berlusconi: ma se il Cav., a un certo punto, sarà stanco di essere tirato per la giacca, che fine farà la sua creatura? Quanto potrà resistere il commissario regionale all’azione tambureggiante dei suoi detrattori? Quanto potrà sopravvivere Forza Italia a questa eruzione vulcanica perenne? E soprattutto, dove andranno i suoi voti? Ma prima di questo scenario catastrofico, c’è ancora un modo per uscirne incolumi: prevede la mediazione del Cav., un confronto schietto, la ricomposizione delle fratture. Facile a dirsi, molto meno a farsi. Un po’ più a cantarsi: ‘meno male che Silvio c’è…’.