Il richiamo all’ordine di Renato Schifani, che ha fissato la prima seduta del nuovo parlamento il 10 novembre, è un passettino verso la normalità. Il primo. Ma in questa Regione non c’è nulla di normale, a partire dalla proclamazione degli eletti: mancano le province di Catania e Messina, anche se si tratta di una formalità. Gli uffici centrali dei Tribunali competenti per circoscrizione, a un mese esatto dal voto, hanno ultimato il conteggio delle schede e ufficializzato i risultati. Ma per conoscere l’esatta composizione dell’Ars servirà dell’altro tempo. Il primo a rompere gli incantesimi dovrebbe essere Nuccio Di Paola, candidato del M5s alla presidenza ed eletto in tre differenti collegi: dalla sua scelta dipenderà il destino di almeno un paio di colleghi, tra cui l’uscente Roberta Schillaci (prima dei ‘non eletti’ a Palermo).

Gli altri onorevoli sub-judice sono nomi noti: il primo è Gianfranco Miccichè, che non ha ancora scelto fra l’Ars e il Senato. Nel caso in cui il coordinatore regionale di Forza Italia decidesse di volare a Roma, al suo posto subentrerebbe Pietro Alongi, fedelissimo di Schifani, che ha scavalcato di una manciata di voti Francesco Cascio (tuttora in attesa di una ‘ricompensa’); mentre Ersilia Saverino, prima degli esclusi del Pd a Catania, attende di conoscere la posizione di Anthony Barbagallo, eletto anche alla Camera dei Deputati (dove peraltro ha presentato la prima interrogazione sul sisma di Santo Stefano del ’18). Micciché e Barbagallo avranno ancora qualche mese per formalizzare il proprio futuro. E in ogni caso reciteranno la parte del leone quando, giovedì 10 novembre, a Sala d’Ercole, verrà eletto il prossimo presidente dell’Assemblea regionale.

L’uscente non ha mai fatto mistero di ambire a quella poltrona. Pur sapendo che l’addio a Musumeci avrebbe complicato i suoi piani. Da qualche giorno, però, Micciché è tornato a crederci: complice la sponda di Cateno De Luca, che si è detto pronto a sostenerlo (con una schiera di otto deputati), e gli ottimi rapporti con alcuni esponenti storici di Pd e Cinque Stelle, che anche al termine della scorsa legislatura gli hanno riconosciuto il merito di aver condotto l’aula con equilibrio. Al momento è difficile ipotizzare un golpe ai danni di Schifani, ma la situazione subirà degli assestamenti nei prossimi giorni, quando il neo governatore dovrà fare i conti con la formazione del nuovo esecutivo.

Micciché rappresenta, assieme a FdI, il principale azionista della coalizione di governo. Ha chiesto l’assessorato alla Sanità, e gliel’hanno già negato, con la motivazione che serve qualcuno di “competente”.  Con la presidenza di Sala d’Ercole già promessa ai meloniani – e su cui Ignazio La Russa spera di far sedere Gaetano Galvagno, il suo pupillo – i fragili equilibri del centrodestra potrebbero già essere intaccati. Bisognerà inventarsi una formula di compensazione. Schifani dovrà fare chiarezza, o la situazione potrebbe diventare insidiosa. Il presidente dell’Ars, infatti, si sceglie col ‘voto segreto’: accordi e accordicchi sotto banco sono possibili, ancorché leciti. Ma macchiare il debutto all’Ars in questo modo sarebbe un pessimo segnale per il proseguo della legislatura.

Al netto di alcuni incontri bilaterali coi partiti, e di alcuni apprezzamenti su assessori che non sembrano mai del tutto archiviati (Razza e Armao), il presidente della Regione dovrà impostare nottetempo la geografia della giunta. Che non significa soltanto riempire le caselle, ma stabilire una regola di pesi e contrappesi per non scontentare nessuno. Il caso più autorevole è quello degli Autonomisti di Lombardo, che risultano il partito con meno eletti (quattro): anziché due assessorati, potrebbero accontentarsi di uno solo, purché di “sostanza”: l’ex vicepresidente dell’Ars, Roberto Di Mauro, assapora la delega all’Economia. In questi incastri per nulla banali, si aggiunge un’altra riflessione: Schifani ha promesso una giunta “di soli eletti” ed è tentato dal limitare a pochissime eccezioni la presenza di esterni. Così facendo, però, rischia di mettere a repentaglio la maggioranza; non tanto in aula dove una soluzione si troverà, quanto nelle commissioni di merito. Dove gli assessori, per antonomasia, non possono presenziare sempre. Forse questo principio andrebbe ripensato, mentre non è derogabile la presenza di almeno quattro donne.

Schifani, che fin qui ha faticato a garantire gli equilibri, e penzola più dalla parte dei patrioti, si troverà di fronte a scelte importanti. Determinanti per il futuro dei partiti e della Regione. Dei partiti perché il clima tra Forza Italia e Fratelli d’Italia, che hanno preso più o meno lo stesso numero di voti, è stato esacerbato dalle polemiche romane, e dal mancato voto dei ‘falchi’ di FI (tra cui Micciché nei confronti di La Russa). Mettere d’accordo i principali azionisti della maggioranza è un tentativo che va fatto per evitare che la legislatura si trasformi in una fotocopia della precedente. Della Regione perché l’appuntamento del 10 rappresenta lo striscione del via, anche se i problemi sono già sul tavolo. A rovesciarne una parte ci ha pensato la Corte dei Conti, contestando l’irregolarità della spesa per un miliardo circa: se il ragioniere generale, assieme al prossimo assessore all’Economia, non riusciranno a fare valere le ragioni di Armao (il cui spirito ancora aleggia nei corridoi di via Notarbartolo), la parifica del prossimo dicembre potrebbe rappresentare per palazzo d’Orleans un punto di non ritorno. Di già. Con la conseguenza di una manovra lacrime e sangue. Una sciagura.

Tra i numerosi cassetti aperti – non si parla certo di riforme, che prevedono una gestazione più lunga – Schifani ha avuto la forza di affrontare da solo quello relativo al trasporto marittimo verso le isole minori, ripubblicando le gare per l’affidamento dei servizi in concessione su base quinquiennale; e quello delle vittime del maltempo, dichiarando lo Stato di crisi. Ma nel frattempo ha dovuto affidarsi ai capi di gabinetto uscenti per portare a compimento l’ordinaria amministrazione: ossia persone di fiducia degli ex assessori, trattenuti in servizio per mancanza di “personale”. Un altro aspetto su cui il prossimo governatore dovrà incidere, come sta cercando di fare Meloni nella Capitale, è l’iter di formazione di staff e uffici di gabinetto, una volta insediati i componenti della sua giunta. Deve essere rapido, in modo che la macchina possa ripartire. Altrimenti resteremo sempre a un passo dallo strapiombo, dove Musumeci e Armao, con la loro semina lenta e impercettibile, hanno trascinato la Sicilia.