Impeccabile e sorprendente è la museruola di cuoio in luogo della mascherina Covid-19. Questa immagine è venuta fuori da qualche parte nel web e siccome l’eros non ti regala mai nulla – si prende tutto, anche il caffè – si capisce come il mondo, tenuto fermo, non abbia potuto nulla con l’irrefrenabile sfantasiare della carnalità.

Gocciano i singulti del ventre – il pomo d’Adamo si affaccia dal gargarozzo – e il desiderio avvolge ogni trama della nostra biologia mentale.

Tutto è un mettere mano. Un tenere in mano per dirla con Checco Zalone che nella sua fulminea clip con Virginia Raffaele canta l’immunità di gregge: “La pecora più bella sarai tu.” Qualsiasi cosa sia il climax, quello delle mani è il susseguirsi affilato e tagliente del fremito in crescendo: il punto di rottura della caccia giunta a buon fine. Un battito di ciglia e poi l’odorino di cui si nutre il sogno, l’acquolina che impregna le fauci, la fantasia che sfantasia – infine – in flemma, mollezza e il languore di metamorfosi obbligate di animaletti, predatori e fauna varia.

Quello delle mani è lo sguardo verticale, sono l’istante – le mani – attraverso cui la percezione è plastilina. Con le mani si modella l’istantaneità del profondo. Come le mani tra i capelli. Mano nella mano, infatti, è il cuore a cuore, tutto di gnam e baci perché il sì è sempre muto.

La mano artiglia la tigre, cavalcandola. E la stretta di mano, oggi abolita per legge – il gesto dell’amicizia in tutto il mondo – è pur sempre il segno che i soldati romani restituirono all’universalità incontrando in Asia i misteri del dio Mitra. Ci siamo dati la mano dal I secolo fino a febbraio scorso perché le legioni l’hanno visto fare ai seguaci di Mitra – “quelli uniti dalla stretta di mano” – e da lì, tornando a casa, ne hanno divulgato il gesto.

Il mitraismo è la religio più coerente allo sfantasiare del sangue. Risuona nello strazio del toro: pugnalato dal Dio, morso dal serpente, azzannato dal cane, alla fine agganciato da uno scorpione che ne lacera lo scroto. Ogni torso di soda carne, ogni polso, ogni calcagno – alto e snello – è un composto ad aspro voltaggio: dimora nello sfantasiare di ciascuno e non certo nell’inconscio che, va da sé, è solo una superstizione hollywoodiana.

Lo sfantasiare, infatti, è il fantasticare del corpo. Accade quando i sentimenti diventano sensazioni. La dolcezza effonde di rosa tenue l’incavo del collo, la meta cui si destinano le mani, il luogo da dove la performance – ancor più che fare i baffi alla Gioconda – reclama guinzagli e borchie. Al collo della Dama con Ermellino. Mirabile la messa in opera del pop sul quadro di Leonardo. Checco Zalone sì che saprebbe cosa dire: “La pecora più bella sei tu.”

Lo sfantasiare è la dinamo del corpo, ha urgenza di moto ed è – appunto – l’ennesima potenza per il cervello. Forse è il restare intorno al vago, certamente è tutto ciò che affiora nella perdita di senso. “Me ne vado a sfantasiare” è l’imperativo di quando la testa ci fa dire cose che non hanno parole. Francesco Pontorno – manager di Tree – che l’ha detto ultimamente ha inteso rinnovare il patto ruspante di terra e passo perché si cammina quando si sfantasia.

“Sotto il suo passo nascono i fiori” ha cantato Goethe. Si cammina e si mette mano al sì sempre muto. Nell’irrefrenabile sfantasiare della carnalità. Con le mani a ravvivare di gnan e baci i capelli.