Ogni tanto una riflessione, un appunto, poche ma sentite righe le scappano sempre. Annota. Detta alla sua assistente, certo, ma nulla le sfugge. Franca Valeri compie 100 anni a fine mese, il 31 luglio, e guarda a questo secolo lungo il quale ha camminato con un’ironia che s’è fatta forse meno puntuta ma non per questo meno incisiva. Pane al pane e vino al vino li ha detti sempre, d’altronde, in prima persona e attraverso i suoi personaggi, per vie dirette o per metafora.

Le manca il palcoscenico, confessa. Non le è passata affatto la voglia di quelle tavole di legno, capisci che non sai cosa darebbe per poter aspettare ancora in quinta e poi fare la sua sortita, l’applauso che parte ma… Le mancano di sicuro i vecchi amici che si sono congedati per sempre, chi già da un pezzo (Peppino Patroni Griffi), chi di recente (Alberto Arbasino). Rimpiange (forse, ma questo non lo dice) gli amori giovani e quelli maturi (da Vittorio Caprioli, che fu suo marito e compagno d’arte scenica, a Maurizio Rinaldi, il direttore d’orchestra con il quale condivise vita e passione per l’opera lirica). È ricca comunque di affetti quotidiani: la figlia adottiva, i nipoti, gli amici di anni lontani o più vicini (da Adriana Asti ad Annamaria Guarneri, da Lella Costa a Urbano Barberini, a Pino Strabioli), l’assistente, il personale di servizio, il cane e la gatta (solo due, ormai, gli amatissimi animali che le girano intorno nella casa al confine tra Roma e il primo verde extraurbano, gli altri stanno nella villa sul lago a Trevignano, e sono quattro, e quattordici nel rifugio dell’associazione animalista che porta il nome dell’attrice, sempre sul lago).

Non saremo mai grati abbastanza a Franca Valeri per la sua arte quasi sempre al servizio di una meritoria missione: squarciare il velo dell’ipocrisia privata e sociale, squadernare i pregiudizi, svelare la falsità di alcune stupide convenienze (solo quelle in cui una forma imbalsamata strangolava una sostanza viva perché altre convenienze, magari, son da preservare, direbbe lei, vedi la buona educazione, il buon gusto, una certa maniera nel savoir-vivre). Lo ha fatto in teatro, nel cinema e in tv. Lo ha fatto alla pari di colleghi maschi – che l’hanno affiancata dirigendola o dividendo con lei la scena o il set – scrivendosi da sé le sue commedie o collaborando alla stesura dei copioni. Non finiranno mai di ringraziarla le donne che pure ha trattato malissimo, con un cinismo affettuoso che trovava in Arbasino il suo involontario omologo maschile, femmine altolocate o di media e piccola borghesia, mamme ossessive e mogli o amanti noiosissime, elegantissime nei loro tailleur o sciatte tra bigodini, vestaglie e pantofole, incolte e fiacche, male relazionate con uomini che, lo si capiva subito, erano comunque peggio di loro. La Signorina Snob, “la” Cesira, la sora Cecioni: archetipi, icone di desolata spensieratezza, personaggi del cuore grazie a una tv in cui i sabato sera erano allegri e intelligenti.

Si è commossa l’altro giorno, “la Franca” (come la chiamano ancora alla milanese, con l’articolo), quando ha avuto tra le mani la prima copia del ponderoso volume che raccoglie tutte le sue commedie (per La Tartaruga de La Nave di Teseo, 668 pagine, 22 euro): finalmente l’opera omnia per la scena, più qualche sketch, una di quelle testimonianze che ancora mancavano.

Torta, candeline e brindisi in familiare e amicale riservatezza. Probabilmente arriveranno le telefonate di Sophia Loren che non si è mai scordata di un 31 di luglio (recitarono per la prima volta insieme sullo schermo ne «Il segno di Venere», 1955) e di Gianrico Tedeschi, l’altro centenario di questo 2020 (ha raggiunto il traguardo del secolo lo scorso aprile), più volte suo compagno di scena, anche nel «Luv» di Murray Schisgal di metà anni ’60, quando Walter Chiari, more solito, arrivava in teatro cinque minuti prima che si alzasse il sipario e una sera non arrivò proprio: “la Franca” andava su tutte le furie, non la sopportava proprio quell’indisciplina, “la Franca” è sempre stata un comico serio.