Prigionieri del passato. No, non è il titolo del film americano degli anni Quaranta. Perché qui non c’è un problema di perdita di memoria, quello che attanaglia il protagonista della pellicola di Mervin Le Roy, semmai di un eccesso di memoria. O di una memoria distorta a parziale consolazione (assoluzione?) del nostro presente. Dove l’eccesso e la distorsione si caratterizzano per una venatura quasi patologica, tipicamente isolana e isolante, pure un po’ provinciale.

Alle corte. Palermo celebra Franca Florio, o meglio donna Franca Florio, con una mostra fotografica (nel restaurato Stand Florio in via Messina Marine) che in sé è un piccolo evento dal momento che l’icona femminile per eccellenza di quella Palermo è stata tramandata nei decenni attraverso poche pose, tra tutte quella celeberrima di Giovanni Boldini, il pittore che mise mano al ritratto all’alba del secolo scorso per porvi fine oltre vent’anni più tardi, dopo tormentati ritocchi che diedero vita a leggende plurime (non ultima la gelosia del pur fedifrago marito di Franca, Ignazio). Ritratto che per anni stazionò a Villa Igiea e per non perdere il quale – una volta messo all’asta dai vecchi proprietari, la società Acqua Marcia dei Caltagirone – diversi palermitani infiammarono una querelle, si intestarono una campagna d’opinione, brandirono un orgoglio da campanile in altre occasioni smarrito, secondo solo a quello dell’irriducibile pattuglia di italiani che si ostina ancora a chiedere la restituzione della Gioconda al Louvre.

Foto – queste di donna Franca, molte inedite – che evocano certamente una Palermo d’oro, quella delle Belle Epoque, che è la chiave con la quale gran parte dei visitatori preferisce leggere queste antiche stampe, in preda probabilmente a una mitomania che pretende sempre vivida una mitologia favolistica e anche un po’ semplicistica del personaggio e del contesto in cui visse, mentre in controluce, in filigrana si possono scorgere i segni di una lieve mestizia, di una nostalgia disincantata, di una malcelata tristezza. Quella donna della quale D’Annunzio – vanamente invaghito – aveva attribuito la falcata “alla levriera”, “svogliata e ardente, con uno sguardo che promette e delude” aveva probabilmente molte fragilità ma il nostro sguardo offuscato dal mito è come se non volesse proprio saperne, di coglierle.

Ecco, sta qui il nostro essere prigionieri del passato, in questa rivendicazione drogata di una trascorsa identità, in questa declinazione tra boria e protervia di uno ieri irreplicabile, come se non ci rassegnasse al fatto che quel che c’era una volta non c’è più, che sui fasti del grande kolossal del ’900 già da un pezzo è stata scritta la parola fine, sta in questo inalberare pennacchi che non abbiamo più a disposizione – magari le stesse piume di “uccelli del Paradiso” che ornavano i cappelli di donna Franca – la nostra inguaribile mitomania. Una lettura del passato che ce ne fa ostaggi, che si nutre di mitologie che si trasmutano per l’appunto in mitomanie, come un continuo vivere per rimestìo di ricordi, un compulsivo nutrirsi di luoghi comuni.

Ostaggi, oltre che dell’incolpevole donna Franca, degli inconsapevoli Tomasi di Lampedusa o Sciascia, ad esempio, di quella che è stata una lettura del nostro ieri sempre utile da ripassare (nessuno o nega) ma che è consegnata comunque definitivamenre agli archivi e in cui rimescolare fa perdere di vista l’interpretazione del presente. Perché guardare a quest’ultimo attraverso il filtro del passato sarà anche cosa buona e giusta ma se il passato si erge sul piedistallo del mito, la vista si appanna.

Un po’ rodomonteschi, in questa nostra abitudine, alla nostra maniera: come se il Ronzinante che cavalchiamo fosse un purosangue inglese ma noi – si sa – siamo meglio degli altri, ieri oggi e domani.