La puntura di Matteo Renzi ha avuto il merito di riaprire il dibattito sull’eterna questione del Reddito di cittadinanza. Un provvedimento “diseducativo” secondo l’ex premier, che anche Salvini – nonostante la Lega sia il primo partito ad averlo sostenerlo insieme al M5s – vorrebbe rimettere in discussione: “Anziché creare lavoro, sta creando problemi”. Ora, al di là dell’asse fra i due Matteo, il tema meriterebbe una riflessione più approfondita, e certamente più rapida della prospettiva offerta da Italia Viva: ossia la formulazione di una proposta referendaria per la sua abolizione (nel 2022). Il problema si pone qui e adesso, e non grava unicamente sui “divanisti”: chi percepisce 800 euro standosene comodamente a casa, perché mai dovrebbe essere interessato a lavorare per la stessa cifra o poco più? A mancare, semmai, è il seguito: perché chi percepisce il sussidio, è condannato a stare sul divano? Chi lo mette in una condizione talmente agevole da non considerarne altre?

Tutto riconduce all’incapacità politica di rimodulare la cosiddetta fase-2. Se i Cinque Stelle hanno una colpa, assieme ai tre governi che si sono succeduti dalle Politiche del 2018 in poi, è il non aver saputo (o voluto) apportare correttivi a una misura (magari) nobile di contrasto alla povertà, che però era stato pensata in maniera diversa: non un semplice sussidio, bensì uno strumento di politiche attive del lavoro per consentire a una platea enorme di beneficiari (se ne stimano 3,7 milioni in tutta Italia) di poter rientrare a pieno nel mercato. Invece, a distanza di quasi due anni e mezzo dall’introduzione del Rdc, la lettura è cambiata: sono pochissimi i percettori impiegati in lavori di pubblica utilità (spesso dai Comuni), e ancora meno quelli che sono stati ‘piazzati’ dai Centri per l’Impiego e dai cosiddetti navigator, una figura di supporto nata all’uopo. Sono tanti, troppi quelli che invece vengono beccati con le mani nella marmellata. E non solo mafiosetti di primo pelo: qualche giorno fa, nell’ambito di alcuni controlli incrociati sulla movida, è risultato che due giovani palermitani vendessero abusivamente bevande e alcolici. Prendevano entrambi l’assegno mensile.

La cronaca, ormai sbiadita, lascia il posto al dramma dei numeri. E all’aumento dei percettori del Rdc si accompagna un altro fenomeno rilevante. Secondo gli ultimi dati Istat, il tasso di occupazione, che quantifica l’incidenza di chi lavora rispetto al totale della popolazione residente, nell’Isola è pari al 41,5%. A risultare inattivi sono 1.556.000 cittadini, di cui il 65% donne. E sapete quanti siciliani percepiscono il Reddito di cittadinanza? 556 mila persone, cioè un siciliano su sette. La forbice continua ad allagarsi. Il Reddito non rappresenta una leva. Come ha segnalato qualche giorno fa Claudio Barone, segretario della Uil a Repubblica, “in Sicilia non ci sono 600 mila posti di lavoro. Allora bisogna fare in modo, sfruttando i tirocini e il fondo nuove competenze, di utilizzare i soldi per sostenere la formazione dei neo-assunti a patto che le imprese si impegnino poi ad assumere a tempo indeterminato. Altrimenti il Reddito, misura annuale rinnovabile, andrà avanti all’infinito. E a crescere sarà solo il lavoro nero”. Anche il segretario regionale della Cgil, Alfio Mannino, ha ammesso ieri che “è inappropriato pensare che uno strumento del genere sarebbe potuto servire per aumentare la capacità e migliorare l’andamento del mondo del lavoro”. Una fotografia impietosa che chiude ogni tipo di discussione.

Servirebbe ricreare un tessuto connettivo – però – tra politica e imprese. Perché è vero anche il contrario: che molte di esse offrono paghe da fame. “Il Fatto Quotidiano’, che prosegue la sua campagna a favore del Reddito al di là di ogni ragionevole dubbio, di fronte all’assenza di bagnini o lavoratori stagionali, segnala che “le condizioni lavorative proposte alla “gioventù recalcitrante” erano salari da fame e orari senza nessuna regola”. Per carità, può anche darsi. Ma trasformare il dibattito in una contrapposizione quasi ideologica, come spesso avviene per altre questioni (dai diritti civili ai migranti, per citare due argomenti sulla cresta dell’onda), non rende giustizia ai percettori del sussidio che in linea di massima, terminata la pandemia, potrebbero ritrovarsi in mezzo a una strada. La misura, infatti, prevede che alla terza offerta di lavoro respinta, si decada dal beneficio. Se qualcuno – Draghi? – dovesse decidere di far rispettare patti e condizioni, molti sarebbero nei guai.

Creare un’alternativa al divanismo è presupposto essenziale (ed esiziale) per dare alle regioni più povere – la Sicilia è fra queste – una speranza di futuro. Che vada al di là della formazione, o dei lavori socialmente utili (che già sarebbero tanto di guadagnato, come spiegava il direttore Sottile nelle sue Operette immorali). E’ dannoso alimentare la voglia smodata di starsene con le mani in mano, o, peggio, offrire un assist preterintenzionale a boss e scagnozzi, a criminali e furbetti, che da questa prospettiva traggono il massimo beneficio. Eppure all’invito di Renzi (“Nel 2022 partiremo con una raccolta firme per un referendum abrogativo del Reddito di cittadinanza. Vogliamo che siano gli italiani a dire se è diseducativo e se va mantenuto o no”), nessuno ha offerto una sponda. Neanche lo stato maggiore di Confindustria, cioè il destinatario finale del messaggio, che sembra accontentarsi dello sblocco dei licenziamenti e non vorrebbe, in questo momento delicato, cavalcare la tensione. L’unico a proferire verbo è stato il palermitano Riccardo Di Stefano, leader dei Giovani industriali: “Si è creato il Reddito di cittadinanza, che non solo non ha abolito la povertà, ma sta addirittura generando effetti distorsivi”, ha detto. “Il dramma del lavoro senza tutele, va combattuto e condannato in ogni forma perché penalizza gli imprenditori onesti, che sono la maggior parte”. “Bisogna, dunque, riformare il Reddito di cittadinanza, a partire da quelle politiche attive che sono rimaste lettera morta, per renderlo ciò che dovrebbe essere: un sostegno a chi è in difficoltà e non una rendita di immobilità”.

Mentre si discute e si dibatte sui massimi sistemi, nell’Isola le (uniche) politiche attive del lavoro ruotano attorno a Garanzia Giovani, cioè il tentativo di avviare i ragazzi alle professioni; ma anche al concorsone dei Centri per l’Impiego, che prevede 1.100 assunzioni circa. Il bando sembrava pronto per essere pubblicato, poi sono subentra te delle novità (l’addio alla preselezione a quiz e alla valutazione dei titoli professionali) e tutto si è bloccato. I sindacati sono tornati a bussare alle porte della Regione: “Ancora oggi non si sa nulla del bando per il potenziamento dei Centri per l’Impiego che prevede l’assunzione di oltre mille addetti. Così come non c’è stato alcun confronto con le organizzazioni sindacali sulle linee guida di Garanzia Giovani 2”, sostengono Cgil, Cisl e Uil Sicilia nel “denunciare l’inerzia del Governo Musumeci”. “Nonostante le numerose richieste d’incontro – aggiungono – si continua a fare a meno di confronto e concertazione e, nei fatti, si procede in assoluta autonomia escludendo i sindacati dalla scrittura delle linee guida dei provvedimenti che riguardano migliaia di cittadini. In Sicilia è tutto fermo, per questo continuiamo a chiedere un cambio di passo e un confronto serio. Restiamo, inoltre, in attesa di conoscere quali determinazioni questo Governo intende assumere in materia di lotta al lavoro nero” concludono i sindacati.

Il disinteresse del governo regionale è confermato dal deputato regionale di Onda, Carmelo Pullara, che, pur separandosi dagli Autonomisti, continua a sostenere Musumeci: “Il risultato dell’incontro di mercoledì 7 luglio per discutere sulle modalità di gestione delle risorse pubbliche a valere sulle misure del programma Garanzia Giovani, è un sostanziale nulla. Né l’assessore Scavone né il direttore generale Sciacca hanno ritenuto di dover partecipare all’incontro. Al loro posto, hanno inviato i propri funzionari, trincerati dietro argomentazioni difensive, volte a nascondere l’operato finalizzato al perseguimento dell’interesse dei soliti noti e non dei giovani in cerca di occupazione”. Il riferimento è a Garanzia Giovani. Sebbene gli Avvisi siano stati pubblicati in Gazzetta ufficiale alla fine di dicembre, i tirocini non sono ancora cominciati. Lo stesso assessore, interpellato da Meridionews, ha spiegato che “stiamo completando la fase di accreditamento delle Agenzie per il lavoro e degli enti di formazione. Se un ritardo c’è stato, è imputabile alla pandemia che ha comportato uno slittamento dei termini, e al lavoro di scrematura delle graduatorie, a cui abbiamo proceduto scartando le richieste dei dormienti” (circa 93 mila persone, ossia le domande presentate in passato e mai aggiornate).

Ecco, Pullara però crede che ci sia dell’altro: “Diciamo ‘no’ a tutte le ipotesi di correzione della distorta applicazione delle prescrizioni dell’Avviso che ha consentito l’assegnazione di ingenti risorse a pochissimi enti. Continueremo quindi a porre all’attenzione dei competenti organi giudiziari lo spreco delle risorse pubbliche. Trovo essenziale favorire l’azione diffusa e sinergica, al fine di garantire pari opportunità. Chiederò un’apposita audizione in commissione dell’assessore, nonché delle associazioni, finalizzata ad evitare, da un lato la perdita dei finanziamenti, dall’altro l’accelerazione dei processi, affinché si possano dare risposte immediate ai siciliani”. Se alla scarsità acclarata di lavoro, si uniscono i sospetti legati allo spreco di risorse pubbliche – per finanziare misure di avviamento al lavoro – siamo davvero inguaiati.