Si racconta che mentre i populisti si appropriavano del balcone di Stato, lui abbia chiuso gli occhi e spento il telefono ascoltando le note del maestro Ennio Morricone. E cosi, mentre l’Italia spaventata lo cercava, Sergio Mattarella lasciava andare indietro il capo e si smarriva all’auditorium Parco della Musica dove si celebravano i 90 anni del compositore e le urla di palazzo Chigi non potevano arrivare.

E cosi, ogni notte, se ne sta al Colle più alto a studiare la carta costituzionale e come quei predicatori mandati a evangelizzare gli stranieri, Mattarella si difende, e difende il paese, con gli articoli dei padri costituenti. Da questo libro che ormai tiene sul comodino e che gli concilia il sonno, Mattarella ha ritagliato quell’articolo 97 che impone alla politica conti solidi perché “occorre assicurare l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico”. E c’è sicuramente la fede del siciliano nella parola scritta, nel ragionamento ostinato, nel tentativo di questo professore palermitano di addomesticare il populismo che lui, suo malgrado, ha incoronato governo, c’è ancora la fiducia del servitore delle istituzioni nei suoi richiami che fanno solo il solletico a Matteo Salvini che non a caso risponde: «Dell’Europa me ne frego».

A Latina, dove i sanculotti della Lega acclamavano l’aviatore che vuole bombardare Bruxelles, il nome di Mattarella veniva insolentito e prima ancora, a maltrattarlo, ci avevano pensato i balordi incappucciati del M5s che ne chiedevano addirittura l’impeachment su Twitter. Tra chi lo derideva senza nascondersi c’era Marcello Foa, giornalista che i quotidiani Le Monde e The Guardian hanno definito “fake news journalist”. In pratica, un impostore. A due mesi da quel pomeriggio in cui Mattarella ha lasciato giurare sulla Costituzione gli uomini che quella carta oggi la bestemmiano, Foa è stato eletto presidente della Rai. Anche la nomina di Giovanni Tria a ministro dell’Economia, che tutti abbiamo salutato come la fronte alta di Mattarella, insomma un suo successo, rischia di preparare la strada allo stregone che teorizza l’uscita dall’Euro, quel Paolo Savona che i populisti sognano sempre far accomodare proprio al posto di Tria.

E forse, bisognava comprendere che Mattarella non fosse l’uomo adatto a questo tempo osservando il suo portavoce Giovanni Grasso che, nei giorni delle consultazioni, assisteva alla marcia di Salvini e di Luigi Di Maio come quegli anziani che nel passo dei nipoti sentono già l’odore di bruciato della casa. Perfino la cavalleria di Mattarella, i ragionieri di Stato, è stata fatta prigioniera da Rocco Casalino, il portavoce del premier Giuseppe Conte, che ha promesso i “coltelli” per questi “pezzi di m…”.

Mattarella ha dovuto inghiottire anche questa insopportabile impudenza. E c’è da credere che, se non fosse per il bene di Genova, avrebbe inseguito con la ramazza quel pasticcione del ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, che anziché costruire un ponte vero giocava con il modellino insieme a Bruno Vespa o che, ancora avrebbe voluto smascherare questi gabbamondo che pensavano solo a come meglio castigare (i Benetton) ma non a come riconsegnare il ponte ai genovesi. Uomo luttuoso come si dice dei siciliani – ma Mattarella ancora di più per quella sciagura che ha condizionato la sua vita – ogni giorno che passa sembra un presidente piegato dal caso, da quell’imponderabile fatalità che gli è caduta sulle spalle alte e strette ma mai come in queste ore schiacciate.

Mattarella rimane al Quirinale a montare la guardia con la malinconia degli sconfitti, quegli uomini a cui i vincitori hanno concesso di mantenere il palazzo ma solo per fargli comprendere quanto più smisurato sia il loro esilio.