Quando il capo dell’ufficio dei Gip di Catania, Nunzio Sarpietro, il 3 ottobre si sarà accomodato di fronte a Matteo Salvini per l’udienza preliminare del processo Gregoretti, i decreti dell’ex Ministro dell’Interno potrebbero essere già stati cestinati. Il Partito Democratico e il suo segretario Nicola Zingaretti, all’indomani della discreta prestazione alle Regionali, sono passati all’incasso e hanno subito chiesto, con un moto d’orgoglio identitario riesumato d’emblée, la cancellazione immediata dei decreti “insicurezza” redatti dal segretario della Lega, che da ormai un anno ha lasciato il Viminale nelle mani di un prefetto: Luciana Lamorgese. La quale, nonostante gli schiribizzi estivi e il terribile j’accuse del Movimento 5 Stelle siciliano (che ha chiesto a Conte di rimuoverla per incapacità gestionale), ha lavorato in questi mesi a un testo alternativo. Buttando giù un provvedimento in nove punti che il prossimo Consiglio dei Ministri approverà alla prima occasione utile.

A un anno dalla rivoluzione del Papeete, Matteo Salvini potrebbe veder cancellato il suo dono ai posteri. Fra le modifiche più imponenti imposte da Lamorgese, che poi dovranno vedere la luce in parlamento (entro 60 giorni dall’approvazione in Cdm, e comunque prima di Natale), c’è il ritorno dell’accoglienza diffusa, cioè la possibilità di erogare nei centri, “oltre alle prestazioni di accoglienza materiale, l’assistenza sanitaria, l’assistenza sociale e psicologica, la mediazione linguistico-culturale, la somministrazione di corsi di lingua italiana e i servizi di orientamento legale e al territorio”; ma anche la riduzione sostanziale delle multe nei confronti delle organizzazioni non governative, le cosiddette Ong, che salvano i migranti e li accompagnano fin sulle coste siciliane: il nuovo Eden. La sanzione pecuniaria andrà da 10 a 50 mila euro, ma difficilmente potrà essere comminata dal momento che il divieto di transito e sosta nelle acque territoriali non può essere applicato “nell’ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e soccorso in mare”.

Se c’è soccorso non c’è multa. Non che le Ong, finora, abbiano manifestato ‘sto gran timore: fino a pochi giorni fa la Open Arms è potuta attraccare a Palermo senza colpo ferire, con oltre 300 migranti a bordo. E anche la Sea Watch di Carola Rackete, a luglio 2019, con una manovra ardimentosa (a rischio speronamento) ha fatto giungere un pugno di disperati a Lampedusa, nonostante l’opposizione del Ministero e della Guardia di Finanza. Segno che le leggi dello Stato, di fronte a quelle del mare, perdono (quasi) sempre. Il decreto Lamorgese esplicita, inoltre, che “non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti”, mentre non fa menzione dei migranti economici. Come nel caso dei tunisini, che nei mesi di luglio e agosto sono sbarcati in grosse quantità nelle Pelagie, anche con barboncini al seguito, alla ricerca di una fortuna negata nel Paese d’appartenenza.

Secondo le nuove direttive, inoltre, viene assicurata la protezione speciale a tutte le categorie vulnerabili (una specie di “protezione umanitaria” in versione ridotta). L’articolo 5 bis, infine, ripristina il diritto all’iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo – fu un motivo di scontro fra Salvini e Orlando, sindaco di Palermo – a cui viene rilasciata una carta d’identità di validità limitata al territorio nazionale e della durata di tre anni. Una serie di provvedimenti che possono piacere o meno. Il cui senso pratico va assolutamente testato. Ma che in futuro non ci impediranno di osservare copiosi assembramenti, com’è avvenuto questa estate nel centro d’accoglienza di contrada Imbriacola, a Lampedusa, o nel tendone di Porto Empedocle, che continuano ad ospitare migranti pur senza averne i requisiti. Non ci priveranno – affatto – dei meme di Salvini e delle sfuriate di Musumeci, che hanno solo da obiettare e nient’altro da chiedere a Conte e i suoi ministri.

L’uno, Salvini, sarà impegnato il 3 ottobre nell’udienza preliminare per il caso Gregoretti. E farà il possibile per trasformarla in un martirio, accompagnato dai boatos della Lega. Già circolano le magliette con la scritta “Processate anche me”, da indossare all’uscita del Tribunale di Catania, sul red carpet allestito per il “capitano”.  L’ex Ministro si dichiarerà colpevole di aver “difeso gli italiani” e di aver negato (dal 27 al 31 luglio 2019) lo sbarco ai 133 migranti della motonave della Guardia Costiera, recuperati con un paio di salvataggi nel Mediterraneo: uno porta la firma del motopesca Accursio Giarratano, il cui comandante, Carlo Giarratano, è stato premiato all’Ars per quello slancio dì umanità. La Gregoretti, invece, fu osteggiata per cinque giorni dal suo stesso governo, quello italiano, in attesa di concludere le pratiche di redistribuzione dei profughi con gli altri paesi europei.

A Salvini, accusato dal Tribunale dei Ministri di sequestro di persona (“Ma non ho privato nessuno della libertà, c’erano a bordo due scafisti”, ha scritto nelle memorie difensive), non è bastato lo scudo del Parlamento, che pochi mesi prima – quand’ancora era al governo – lo aveva salvato per il “sequestro” di altri 177 migranti a bordo della Diciotti. Intanto i governi cambiano, e i risultati pure: prima non meritevole di un processo, poi sì. Senza sconti. Lo Stato italiano, preferendo la pulsione alla coerenza, ha condannato il politico ancor prima che il gesto. Ma questo, a prescindere dai rilievi penali dell’operato dell’ex Ministro, non ha mai permesso di sbrogliare questa intricata matassa.

A prescindere da Salvini, da come andrà a Catania, e dopo ancora a Palermo (dove verrà giudicato per un altro caso: Open Arms), resta un vulnus. Che si fa coi migranti? In attesa che qualcuno risponda, la Sicilia, ancor prima dell’Italia, affronta questa battaglia senz’armi. Nuda e impavida al tempo stesso. L’unico antidoto è la parola, o qualche dimostrazione sporadica. Come quella di Stefania Prestigiacomo, che assieme a due colleghi parlamentari della sinistra, il 28 gennaio dell’anno scorso, raggiunse con un blitz la Sea Watch-3, ormeggiata al largo di Siracusa in attesa dell’indicazione di un porto sicuro. Salì a bordo e la bastò per prendersi una valanga d’insulti sui social. O come nel caso di Davide Faraone, che si trovava sul ponte della Sea Watch mentre Carola Rackete, arrestata e poi scagionata, entrò furiosa al molo Favaloro, rischiano di speronare una motovedetta ella Guardia di Finanza che aveva intimato l’alt. Il senatore di Italia Viva, ai tempi del Pd, era lì per altro: per cercare di portare a bordo un segnale di presenza da parte delle istituzioni. Ma fu l’emblema di uno scollamento politico senza precedenti: Salvini, sulla terraferma, mostrava i muscoli; i “dem”, sulla barca, pochi e languidi sorrisi.

E poi c’è Musumeci, l’altra faccia della medaglia. L’altra fibra del bicipite. Che da qualche tempo s’è iscritto alla partita, attirando su di sé molte attenzioni. Lo ha fatto sollecitando l’intervento del governo italiano non tanto per fermare gli sbarchi – proprio non si può – ma per prevenire la combinazione infernale delle due emergenze: quelle del mare e della terra, della disperazione e del Covid. Ha dovuto forzare la mano, e firmare un’ordinanza fuori dal mondo – che prevedeva la chiusura dei porti e lo sgombero dei centri d’accoglienza – per ottenere l’attenzione del Ministro Lamorgese, che pensava di aver risolto la questione con una visita a Tunisi e una a Lampedusa. Niente affatto. Alla fine della fiera, però, Musumeci ha dovuto rinunciare alle sue urla per farsi ascoltare. La visita a Palazzo Chigi, oltre al solito giro d’interviste, ha concesso solo un po’ tregua. Non possono essere poche navi-quarantena in rada, o un task force operativa, a risolvere una storia che si trascina da decenni e che, oltre a un’innegabile percezione di insicurezza, ha seminato morti.

A intervenire sul serio dovrebbe essere l’Europa, che invece arranca. Soltanto un paio di giorni fa è tornata a pronunciarsi dopo aver tergiversato per tutto il tempo della pandemia e non aver scucito una parola sulla vergogna lampedusana. La commissaria Ursula von der Leyen ha promesso di riformare il regolamento di Dublino, cioè il sistema che grava sulle nazioni di frontiera, i cosiddetti paesi di primo ingresso, incaricati di gestire interamente i flussi migratori. Una convenzione trentennale che penalizza per lo più Grecia e Italia, ma in modo particolare la Sicilia, la frontiera naturale di questo dramma. Il pacchetto dell’UE prevede – ma non è lecito sapere se e quando verrà tradotto in Legge – “un sistema obbligatorio” secondo il quale le persone salvate in mare, compresi i migranti economici, dovranno essere redistribuite tra tutti i partner europei. C’è però una via d’uscita per i paesi contrari alla solidarietà, come l’Austria e quelli di Visegrad: se qualche governo non vorrà farsi carico dei migranti, sarà obbligato a gestire il rimpatrio di coloro che non avranno diritto di restare. Una sorta di disincentivo a fregarsene. Un altro meccanismo in apparenza perverso è quello dei rimpatri sponsorizzati, secondo cui “gli Stati dovranno rimpatriare – entro otto mesi – una quota di migranti dal Paese di primo ingresso. Se entro otto mesi non saranno effettuati tutti i rimpatri, lo Stato partner accoglierà sul suo territorio quanti restano da allontanare”. Sapete come ha reagito Musumeci? Male. “Da Bruxelles arrivano indicazioni in quattro minuti su un tema che richiede un grande approfondimento”, ha spiegato il governatore siciliano. Sembra la profezia di Isaia: “Dopo interminabili doglie abbiamo partorito soltanto vento”.