La frase “Guarda che chiamo Marco Travaglio” che il pm Annamaria Picozzi ha rivolto all’ex consigliere del Csm Luca Palamara e intercettata dai giudici di Perugia nell’ambito dell’inchiesta che vede indagato lo stesso Palamara, “era solo una battuta”. A spiegarlo, in una intervista al Corriere della Sera, è il Procuratore aggiunto di Palermo Annamaria Picozzi. “Era una battuta. Penso si capisca – spiega – Anche perché i tempi non quadrano. La battuta la faccio l’11 ottobre 2018. Dei corsi parliamo il 22, dieci giorni dopo. E delle nomine relative alla Procura di Roma, cui qualcuno mi sta accomunando, parlano altri e mai io a maggio 2019”. Picozzi spiega che le frasi intercettate in cui fa riferimento a una “ragazza dei nostri”, era riferita “ai corsi di formazione decentrata. E lo dico, ma nelle frasi pubblicate quelle due parole sono state tolte e l’effetto è tutt’altro”.

Alla domanda sul perché chiedesse a Palamara una ‘ragazza dei nostri’, replica: “E’ un posto che non dà soldi né prestigio né potere. Credo molto nella formazione. Ero da poco stata nominata aggiunto a Palermo. Era stato varato il Codice rosso. Mi occupo di donne abusate. Sono di Unicost. Era una connotazione solo culturale”. E dice che alla fine “la ragazza non è stata presa, ne è venuta un’altra bravissima e assieme al mio collega di Mi Scaletta abbiamo iniziato un ottimo lavoro, interrotto dal Covid”. Su Palamara dice: “E’ complesso perché siamo amici. Abbiamo fatto il corso assieme. Ma nei nostri colloqui non abbiamo mai travalicato la correttezza”. Aggiungendo: “Io non c’entro niente con le logiche spartitorie”. Ribadisce anche di non volere parlare dei colleghi “che sembrano avallarle”. “Non conosco le carte. Ho letto stralci di intercettazioni sui giornali. Ma le mie erano incomplete e distorte. Potrebbero esserlo anche le loro”. “Nessuno nasconde la gravità del quadro che emerge, fa male a tutti. Ci squalifica. Ma non siamo una categoria. Siamo persone. Non si può sparare su tutti”.