La grande rinascita dei borghi rurali di Sicilia ha un filo conduttore. E non è, come penseranno i più maliziosi, quello che unisce il governatore siciliano Nello Musumeci, che in tanti hanno ribattezzato il fascista perbene, a Benito Mussolini, che quegli agglomerati li ha voluti e progettati a cavallo fra gli anni ’30 e 40’. Piuttosto, quello che lega il governo della Regione siciliana al suo carrozzone più malandato, e umiliato, che lo stesso Musumeci, in avvio di legislatura, aveva promesso di voler liquidare: l’Esa, al secolo l’Ente di sviluppo agricolo. Nato ai tempi della riforma agraria per costruire le strade poderali che conducevano alle terre, e poi prendersene cura, oggi è una partecipata senza governance, con 600 lavoratori (di cui una buona dose stagionali) e poco, pochissimo senso.

Di Esa questo giornale si è occupato in lungo e in largo, ma un’ulteriore analisi, alla luce degli ultimi fatti, pare d’obbligo. Con un provvedimento annunciato in pompa magna sui social e sul sito istituzionale della Regione, infatti, la giunta Musumeci ha destinato qualcosa come 14 milioni di euro alla rivitalizzazione di tre borghi rurali (il Borgo Lupo, in provincia di Catania; il Borgo Bonsignore, nell’Agrigentino; e il Borgo Borzellino, a Palermo) che vennero costruiti dall’Ente per la colonizzazione del latifondo siciliano (voluto da Mussolini medesimo) dal 1939 al 1943, durante la seconda guerra mondiale, e che poi sono passati di mano: prima all’Eras, l’ente per la riforma agraria, e quindi all’Esa, di cui s’è ampiamento discusso.

“Con questa iniziativa – ha spiegato un Musumeci raggiante – raggiungiamo due obiettivi: anzitutto, il recupero di uno straordinario patrimonio di architettura rurale appartenente alla storia contadina della nostra Isola e che rischia di scomparire del tutto; e la restituzione a territori poveri dell’entroterra di tre strutture da destinare ad attività compatibili col contesto, a cominciare dall’agriturismo o dal turismo rurale”. Peccato che nei tre borghi di cui sopra, e destinatari di misure così eccezionali – mentre la sessione di Bilancio è aperta da dieci mesi e la Regione non scuce soldi neanche sotto tortura – siano abitati da una settantina di persone. L’investimento pro-capite è di circa 200 mila euro. La gestione di questi soldi, e di questi borghi, come detto spetta all’Esa.

Per chi s’è perso le ultime puntate, sappia che dall’ottobre dello scorso anno l’ente di sviluppo agricolo non ha più un presidente: Nicola Caldarone, nominato in quota Forza Italia, è stato invitato a dimettersi dopo aver approvato dieci bilanci in sette mesi (che il collegio dei revisori dei conti non ha mai validato). E nessuno l’ha più rimpiazzato, se non un commissario ad acta, nominato saltuariamente, per il disbrigo delle pratiche urgenti. Una situazione anomala, che ha reso inutile la presenza nel Cda di due consiglieri, entrambi rappresentanti di categoria, con un lauto stipendio, ma impossibilitati a imporre un percorso politico-amministrativo o a decidere alcunché. L’unico che conta qualcosa è l’ex collaboratore di Antonello Cracolici (ma come, non governa il centrodestra?), il direttore generale Fabio Marino, che non più tardi di qualche settimana annunciava un corposo finanziamento da 23 milioni per “attività di progettazione” non meglio precisate.

Oggi, però, i lavoratori dell’Esa, quelli che se ne stanno fuori dagli uffici, vengono utilizzati soprattutto nelle emergenze. Hanno giocato un ruolo importante in casi di alluvione o smottamenti, ricevendo il plauso di Musumeci che qualche mese prima, in pratica, minacciava di lasciarli a casa. O, al massimo, di ricollocarli in un rinnovato Dipartimento Agricoltura, che avrebbe dovuto assorbire uomini e funzioni. Anche quella, una promessa vana. E se da un lato l’Esa fa i conti con la sua gestione anomala – la mancata approvazione dei bilanci avrebbe già dovuto comportare la decadenza del consiglio di amministrazione e un (probabile) danno all’erario – dall’altro deve difendersi da alcune attrazioni fatali. Come quella esercitata da certa politica nei confronti dello splendido palazzo di via Libertà, ultima residenza dei Florio a Palermo. Che qualcuno si vuole pappare.

Quello dell’ente agricolo è un patrimonio immobiliare inestimabile, su cui poco tempo fa aveva messo lo sguardo una grossa azienda del lusso. Era arrivata a offrire 25 mila euro solo per l’affitto del pian terreno, ma l’avance è stata respinta. Pare che l’assessorato al Bilancio della Regione siciliana abbia provato a garantirsi un diritto di prelazione nel caso in cui l’Esa fosse stato soppresso. Semmai dovesse avvenire – ma al momento il pericolo è scongiurato – i suoi beni servirebbero però a pagare la liquidazione. La posizione debitoria (e non solo quella) dell’Ente di Sviluppo Agricolo, infatti, è pesante. Sulla sua testa pendono parecchi pignoramenti, un debito da circa 10 milioni per opere di canalizzazione mai completate, il malcontento dei lavoratori (gli stipendi arrivano in ritardo e non c’è un dirigente che possa firmare le carte del pre-pensionamento). E’ una situazione disastrata che si protrae in cambio di qualche intervento da parte dei “trattoristi”: come la pulizia degli alvei dei fiumi.

Ma tutto ruota attorno agli immobili, che per la Regione resta un argomento da prendere con le pinze. Al di là dell’ormai arcinota questione del censimento “fantasma” commissionato nel 2007 dal governo Cuffaro a un avventuriero da Pinerolo – la commissione regionale Antimafia ha quantificato il danno dell’operazione in 110 milioni di euro – e della cessione di 33 immobili al fondo Fiprs, salvo riprenderli in affitto a un canone doppio rispetto al valore di mercato, Palazzo d’Orleans ha un conto aperto anche con l’Esa: nel biennio 2006-08 la Regione acquistò dall’Ente di sviluppo agricolo cinque immobili dal valore complessivo di 28 milioni di euro. Ma non ha mai sborsato un centesimo. Il Tribunale ha emesso una sentenza passata in giudicato, che prevede per l’Esa la necessità di esigere il debito per evitare un danno all’erario. Intanto, ecco l’ennesimo brodino: 14 milioni e via andare. Per fare i conti c’è sempre tempo.