Ingrate e ingrati. Rovinargli la festa così. Anche da questi lidi, povero Tancredi, e proprio quest’anno, il settantesimo del capolavoro letterario inatteso che creò tra le sue pagine il personaggio che lui avrebbe poi sospirosamente incarnato tra i fotogrammi del film che ne fu ispirato. E vabbè, se proprio non volete ricordarlo all’ombra del ricatto intellettual-isolano-planetario, in verità soffocante da troppe lune (attenti, ne segue un altro – quest’anno – che ci attanaglia, che ci imprigiona, che ci blocca come per sortilegio: il trentennale sciasciano) ricordatelo almeno come Rocco, il pugile figlio della Paxinou, oppure come il killer Frank Costello o il gangster di «Borsalino» (dimenticate però che nella pellicola, molti anni prima dell’avvento di un attore di ben altra cifra, il suo personaggio era Roch Siffredi: vi dice niente?), oppure riandate con la memoria a quel meraviglioso corpo sdraiato a bordo piscina (insieme con la bella Romy, altra prova che Dio ci vede giusto in materia di bellezza), che gli angeli cantino lodi perpetue per Jacques Deray e le sue inquadrature. O ancora: provate a trovare rughe più belle su un uomo alle soglie dei 40 che non sia il professore innamorato della «Prima notte di quiete». E il catalogo ne conterebbe ancora, chissà, magari quasi fino agli attuali, autunnali 83.

La polemica politico-sessista avrebbe voluto spazzar via tutto questo. Ma tant’è: lui non ha mai negato simpatie per la destra anche se con Le Pen s’era conosciuto quand’erano giovani combattenti in Indocina e per Marine, la figlia del fondatore del Fronte Nazionale, oggi ha un’antipatia profonda, insomma non è certo un fascistone tout court, è di destra ma come piace a lui; sulle donne – replica alle pasionarie del Metoo – non ha mai alzato un dito, anzi, confessa che le ha pure buscate; alle nozze gay è assolutamente favorevole, molto meno sulle adozioni per le coppie omosessuali ma figuratevi se può sembrare un’assurdità per il tema dei temi sul quale il mondo si spacca in due. Insomma, questa Palma d’oro alla carriera gliel’hanno data nonostante i «se» e i «ma», a dispetto dei fischi e dei «bu», era l’ultima occasione, d’altronde, e lui – il sex symbol che ha fatto fremere sessi di varie declinazioni – come ogni uomo intelligente della sua età ha fatto un discorsetto di ringraziamento che profumava più di morte che di eros, più di finis vitae che di potere. Commuovendosi senza scenica scienza, come sanno fare i vecchi e i bambini.

Qui, da queste latitudini, per noi, resta Tancredi, ahilui e ahinoi. La scena del ballo del Gattopardo è storica, i saloni di Palazzo Gangi a Palermo pure, lo sperdimento emotivo-sentimentale che in quei giorni di riprese avvinghiava Luchino Visconti, annegato nell’azzurro dei suoi occhi e in quell’altro azzurro degli occhi di Mario Girotti, ancora lontano da Terence Hill che carica colt o pedala in tonaca, resta leggendario. Così come leggenda è il fuori set, con Villa Igiea e le serate tra pantaloni bianchi, foulard, champagne e lo stordimento del profumo di quei maledettissimi fiori che ogni mattina arrivavano dalle serre sanremesi, innaffiati poco prima di ogni ciak. Basterebbe questo per smorzare ogni rancore ideologico, per ridare all’attore quel che è dell’attore, al mito tutto il surplus di cui un mito si nutre e comprendere infine l’uomo per la persona che è stata, la vita che ha vissuto e la star cui ha pure sacrificato una parte di sé. Ah, dimenticavo: lui è Alain Delon.