Ci sono due questioni che s’intrecciano perfettamente e restituiscono lo stato di salute del governo regionale. Sono quelle relative allo scandalo dell’eolico, reso più chiaro dal verbale dell’interrogatorio dell’assessore Toto Cordaro, di fronte al procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Guido, e al sostituto Gianluca De Leo; e quella, sollevata da una conferenza stampa di Claudio Fava, che riguarda la proroga dell’autorizzazione ambientale a una discarica privata, la Oikos, il cui fondatore (ma non più presidente) Mimmo Proto è stato condannato in primo grado a sei anni per aver elargito mazzette a un funzionario regionale in cambio di favoritismi. Due storie brutte e scoccianti su cui il presidente della Regione Nello Musumeci, fin qui, non ha messo bocca.

Sembrano lontani i tempi in cui vari gruppi, compreso il Movimento 5 Stelle, chiedevano un dibattito d’aula sulla questione morale. Il dibattito si fece pure – era giugno – con tanto di ruggiti e polemiche, ma non ha portato a nulla. L’unico atto depositato all’Ars per alleviare gli imbarazzi della politica siciliana è un codice etico per i parlamentari, che non è stato mai attuato. A prevalere è la politica del silenzio. Un silenzio fastidioso se, come si evince, una buona fetta della giunta regionale è invischiata in questioni poco chiare che, come nel caso dell’eolico, si spingono fino a Vito Nicastri, uno dei finanziatori della latitanza di Matteo Messina Denaro, il boss più ricercato di Cosa Nostra. Un legame sottilissimo, fra i politici regionali e il latitante mafioso, che non va ingigantito, tanto meno ignorato.

Andiamo ai fatti. Lo scandalo dell’eolico sorge attorno alla pretesa di Paolo Arata, ex consulente all’Energia della Lega e in affari con Vito Nicastri, di sponsorizzare due impianti di biometano da far sorgere sul territorio siciliano: a Francofonte e Gallitello. Il sospetto che i due progetti non rispondano ai requisiti ambientali richiesti, spingono Arata (dopo una compulsiva attività messaggistica) fin dentro i corridoi dei palazzi della Regione, dove, da buon imprenditore e sulla base di alcune segnalazioni giunte dai piani alti, comincia in un giro vorticoso che abbraccia numerosi assessorati: quello al Territorio e all’Ambiente di Toto Cordaro; quello all’Energia di Alberto Pierobon; e quello alle Attività Produttive di Mimmo Turano, che dice di aver conosciuto Arata per il tramite di Gianfranco Miccichè, presidente dell’Ars, che glielo presentò dopo una segnalazione del fratello di Marcello dell’Utri.

Ma la vicenda s’infiamma attorno alle dichiarazioni di Cordaro, che ai giudici confessa di aver subito pressioni, affinché sbloccasse – “di persona, personalmente”, direbbe l’agente Catarella – l’iter autorizzativo. Le pressioni sarebbero arrivate dal di dentro dell’esecutivo regionale, ossia da quell’Alberto Pierobon, il “tecnico” proveniente dal Veneto, che Musumeci aveva scelto dopo le dimissioni di Figuccia, per prendersi cura del monnezzaio siciliano, e che invece sembra diventato il curatore fallimentare di un assessorato in disarmo, dove gli stessi dirigenti si rifiutano di prestare servizio. Però non è questo il punto.

Il punto, semmai, è che Pierobon spinge per convincere Cordaro a non far impantanare l’ennesimo progetto (sul biometano, in questo caso) nelle acque putride della burocrazia. Anche se, rivelò in commissione Antimafia quando Fava lo invitò a parlare, non sapeva che dietro Arata ci fosse Nicastri. Ma fra i due assessori, ora che i verbali mettono tutto nero su bianco, si apre una frattura insanabile. Che coincide, poi, col peccato originale di questa storia: la possibilità, da parte di avventurieri senza scrupoli, di incunearsi nelle crepe della Regione e banchettare a piacimento. Anziché metterci la faccia, offrire una versione chiara e decidere di conseguenza, il presidente Musumeci ha preferito fare spallucce: “Io sono orgoglioso della mia squadra”, rispose al deputato grillino Antonio De Luca che si era lanciato in considerazioni audaci (“Tutto quello che c’è attorno a lei sa di fetido”) durante il dibattito parlamentare sulla questione morale. Il capitolo resta aperto. E più passano i giorni, più si aggrava. Anche se va considerato che nessuno dei politici tirati dentro questa storia risulta indagato. Cordaro e Turano lo sono, ma per altre questioni.

Il secondo scandalo è quello dei rifiuti e affonda le sue radici nella storia. Qualche tempo fa l’ex governatore, Totò Cuffaro, si presentò alla solita commissione Antimafia e lanciò strali contro la gestione dell’universo della monnezza attuata dal suo successore a Palazzo d’Orleans, Raffaele Lombardo. Reo di aver portato alla Regione – rinunciando ai termovalorizzatori – il modello delle discariche private. Fu proprio nel 2009, in prossimità del governo Lombardo, che alla Oikos, la società che gestisce la discarica di Motta Sant’Anastasia, fu concesso un ampliamento per 2,2 milioni di tonnellate di rifiuti. Attorno a quella autorizzazione, oggi, si concentrano tutti i dubbi dei magistrati.

Con una sentenza del 18 luglio scorso, i giudici hanno condannato in primo grado l’imprenditore Mimmo Proto, a lungo presidente della Oikos, a sei anni di reclusione. Con l’accusa di corruzione Spiegano, all’interno delle motivazioni, che il “padre” della società Oikos “concepisce come unico metodo della sua attività imprenditoriale il prezzolare chiunque possa essere funzionale al disegno di ampliamento della sua discarica”. A ottenere utilità, dall’altra parte, è stato l’ex funzionario regionale, Gianfranco Cannova, condannato a nove anni. La discarica di Motta, che sorge a due passi dal centro abitato di Misterbianco e per questo è stata al centro di una infinità di polemiche, pur senza Proto al timone di comando, ad agosto 2019 è stato insignito dalla Regione, e nella fattispecie dal dipartimento Acqua e Rifiuti, di una proroga decennale dell’Aia (l’autorizzazione integrata ambientale), anche se i dubbi sollevati dai giudici e relativi all’autorizzazione di dieci anni prima riguardavano, appunto, “la non compatibilità urbanistica e idrogeologica del progetto” della discarica.

Un elemento che dà adito ai sospetti di Fava, e non solo ai suoi: “Il Tribunale – ha detto in conferenza stampa il deputato dei Cento Passi – ha chiarito in modo inequivocabile che l’intero processo amministrativo attorno al quale si è sviluppata l’autorizzazione data ad Oikos è stato viziato ab origine da una ‘inquietante progressione criminosa… guidando una missione distorta volta ad ottenere con ogni mezzo l’ampliamento delle discariche del Proto, in una direzione diametralmente opposta alle indicazioni della legge nazionale, della legge regionale… agitando lo spettro del regime emergenziale’. Da mesi chiedo al governo, all’assessore e al presidente – ha aggiunto Fava – le ragioni per cui ad agosto, pochi giorni dopo la sentenza ma prima che se ne conoscessero le motivazioni, si è proceduto ad una proroga e ad un ampliamento della discarica. Ad oggi le mie domande restano senza risposta. Un silenzio colpevole, alla luce di ciò che la sentenza oggi ci spiega”.

A rispondere ci ha pensato Oikos – per la Regione solo Salvo Cocina, dirigente del dipartimento Acqua e Rifiuti ha promesso di approfondire la questione – che ha definito la tesi di Fava una “farneticazione ideologica”, rivendicando “il proprio diritto ad esistere ed operare nel mercato dei rifiuti e non rinuncerà di certo adesso”. Il presidente dell’Antimafia ha controreplicato: “Non mi risulta che, almeno ufficialmente, la società Oikos faccia parte del governo regionale. Per questo le precisazioni contenute in un comunicato diffuso della società risultano, oltre che  volgari nella forma e offensive nel contenuto, grottesche nelle giustificazioni proposte. Dopo le motivazioni della sentenza di condanna e la scomposta reazione dell’azienda di Proto, la linea del silenzio appare sempre più intollerabile”.

Un silenzio che si aggiunge ai tanti. E a quello calato sul disegno di legge sui rifiuti, “ritirato” dal governo dopo che il parlamento ha bocciato l’articolo 1, in piena rivolta per la natura stessa dell’atto. Da quel momento il ddl, imprescindibile secondo Musumeci (che l’ha difeso in maniera strenua) non ha più fatto ritorno a Sala d’Ercole. Non avverrà nemmeno nelle prossime settimane, dato che prima bisognerà delineare la lunga sessione finanziaria e presentare una proposta, in commissione regolamento, per la soppressione (o riforma) del voto segreto. Diventato ormai il paravento dell’immobilismo. Nel frattempo, si attendono notizie anche sul “piano rifiuti”, un altro strumento ad hoc per regolare l’impiantistica (pubblica e privata) delle discariche dell’Isola.

Gli ultimi aggiornamenti, riportati dal collega Riccardo Lo Verso su Live Sicilia, non sono incoraggianti: i magistrati sarebbero già al lavoro per scovare “possibili intrecci perversi che coinvolgono politici e burocrati”. Con un particolare occhio di riguardo alle influenze che alcune imprese legate a Nicastri, e delle famiglie mafiose trapanesi, potrebbero avere sulla redazione del documento che a fine gennaio approderà in commissione Ambiente all’Ars e poi all’ufficio legislativo e legale della Regione. L’assessore Pierobon si è messo a disposizione dell’autorità giudiziaria per eventuali chiarimenti, spiegando che “con questo strumento puntiamo sulla raccolta differenziata, diamo priorità agli impianti pubblici e mettiamo ordine e trasparenza nel settore”.

Ma c’è anche un terzo scandalo su cui il governo rischia di annegare, ed è quello relativo agli immobili. La speranza di veder risorgere, come l’araba fenice, il vecchio censimento costato 110 milioni – pagati dalla Regione a una flotta di avventurieri – è quasi naufragata. I dati al suo interno, di cui s’è presa visione dopo una decina d’anni, risultano inservibili, e i soldi chissà in quali tasche sono finiti. Ma la questione è tornata prepotentemente di moda alla fine del 2019, quando la giunta, con una manovra dell’assessore Gaetano Armao, ha imposto al Fondo Pensioni dei dipendenti regionali di rilevare il 35% del Fiprs, il fondo immobiliare della Regione, e in pratica di sostituirsi ad essa.

Verrebbe da dire che l’assessore Armao ha agito per nome e per conto di Rosario Crocetta e Alessandro Baccei, ex assessore renziano all’Economia, che nel 2017 confezionarono una norma, inserita nella Legge di Bilancio, che prevedeva questa eventualità. Rimasta inattuata fino a oggi (vari assessori, fra cui Falcone e Cordaro, nella passata legislatura la ritenevano una vergogna), per il governo Musumeci è arrivato il momento di chiudere l’affare: in cambio del 35% di cui sopra, la Regione si assicura un acconto di 22 milioni di euro. Poi, sulla base di una valutazione che verrà fatta sugli immobili della Regione – il cui valore, in mancanza di un censimento vero, è sconosciuto ai più – arriverà un bel gruzzoletto che permetterà a palazzo d’Orleans si fare cassa e apparire “virtuoso” anche agli occhi dello Stato (con cui è in ballo la famosa questione della spalmatura del disavanzo).

La vicenda del fondo Fiprs, però, si appresta a diventare l’ennesima sciagura di un governo che sugli immobili ha già pasticciato abbastanza: ne sono prova i cinque milioni di arretrato (tra affitti e bollette della luce) da versare a Sicilia Digitale per sub-locazione dei locali di via Tahon de Revel, a Palermo, dove sono custoditi alcuni server di fondamentale importanza; e per la diatriba con la Crias per il villino Messina Verderame, che Armao dice di aver salvato ma che risulterebbe ancora di proprietà della Cassa regionale per il credito agevolato alle imprese. Nel frattempo i Cinque Stelle non mollano: sulla cessione del 35% del Fiprs al Fondo Pensioni, l’onorevole Di Caro ha già presentato un esposto alla Corte dei Conti per chiarire i contorni del giallo. La stessa Corte, però, che per un difetto di giurisdizione, non ha approfondito sul censimento “fantasma” da oltre 100 milioni.

Ciò che accomuna tre scandali di così grossa entità, troppo spesso sottaciuti, sono le responsabilità politiche che esistono a monte. E che quasi nessuno, stando alle ultime evoluzioni, ha troppa voglia di scoperchiare. Sempre più spesso l’esistenza in vita del governo è legata ai numerini d’aula sui singoli provvedimenti. Ma ci sono questioni più grandi, perfino accecanti, la cui luce si dissolve ogni qual volta Palazzo d’Orleans viene tirato in ballo. Perché?